Il termine coscienza, dal latino conscientia, è un termine composto che definisce lo stato col quale un dato soggetto compie un’azione. L’atto compiuto è cvm-scientia, cioè si produce cvm-scire, con discernimento, quando il soggetto agente possiede la scientia dell’atto che svolge[1]. L’atto dello scire produce la scientia, perché “scinde”, separa, ciò che attiene al vero da ciò che attiene al falso rispetto ad un dato ente. In definitiva, in un dato soggetto vi è uno stato di coscienza quando egli possiede la conoscenza vera e non apparente, fenomenica, di sé o dell’oggetto a cui si rivolge, o della natura dell’atto che compie. Un dato soggetto può accompagnare i suoi atti con scienza o meno, nel caso in cui egli associ la scienza al suo agire egli può essere definito cosciens[2], cosciente, operante con scienza, nel caso in cui non associ la scienza al suo agire il soggetto va definito incosciente. La coscienza è perciò una qualità attinente solo al soggetto disponente di vera scienza, la quale accompagna sempre il suo stato e la sua attività. La mancanza di vera scienza rende il soggetto nesciente, pertanto non avente coscienza del suo stato e dei suoi atti. La vera coscienza stabilisce l’atto del soggetto nel vero, perciò il soggetto onesto fonda sulla sua coscienza i suoi giudizi e la misura delle sue azioni[3], oltreché la coerenza morale e la valutazione della sua condotta[4]. In virtù della coscienza il soggetto possiede un preciso senso del Bene e del male e perciò è in grado di giudicare se la sua condotta è coerente coi principi morali presenti nella coscienza, a tal punto che può riconoscersi “in pace” con essa, oppure avvertire sensi di colpa, rimorso, contrasto con la propria coscienza[5]. Resta inteso che è la retta coscienza va formata con una precisa cultura filosofico-religiosa, altrimenti l’uomo comune incolto sarà sempre in balia di una “cattiva coscienza”.

Per fondare metafisicamente e perciò in modo più completo la nozione di coscienza, è necessario richiamarsi a ciò che costituisce la Realtà Assoluta, ovvero all’Unità Suprema e Indeterminata dell’Essere Puro, nella quale non è presente alcuna molteplicità, né alcuna dualità, ma neanche l’unità intesa in senso determinato, dunque per indicare in modo appropriato l’Unità Assoluta dell’Essere Infinito si può parlare di “non dualità”. L’Essere Infinito, in virtù della sua assoluta non dualità, non è né presenza a Se Stesso, né conoscenza di Se Stesso, né tanto meno autocoscienza. L’Essere Puro è Presenza-Essere-Conoscere incondizionati, indeterminati e infiniti, è Essere Integrale nel quale sussiste un’Identità Suprema arelazionale e inalterata di essere e conoscere, senza la distinzione di soggetto e oggetto e di alcun tipo di processo o attività determinata. L’Essere Puro è prae esse, ovvero “innanzitutto Essere” totalmente arelazionale, irriflesso e non definito, è solo l’autocostituzione dell’Essere come Ente che definisce il prae svm, cioè lo “innanzitutto Sono”, ovvero lo stato dell’Essere nel quale si stabilisce un atto di riflessione finita dell’Essere sull’Essere, da cui procede l’autocoscienza “sono essere”, che ha un carattere determinato. Perciò, prima di qualsivoglia autocostituizione determinata dell’Essere, non può sussistere alcuna alterità, determinazione o intrarelazione nell’Essere Puro, il quale non si conosce in quanto Essere, né in quanto Presente, secondo la relazione a Se Stesso, perché ciò che chiamiamo presenza dell’Essere a Se stesso si colloca, se così si può dire, al disopra dell’attività dell’Intelletto, ma al disotto dell’infinità non duale dell’Essere Puro. L’Essere Incondizionato è presenza indeterminata al non Sé, all’assenza di determinazioni, relazioni ed essenza, è una presenza-identità arelazionale dell’Essere Infinito privo di ogni alterità, mentre la Presenza dell’Essere a Se stesso si costituisce a far principio dalla statuizione dell’Essere che Intellige l’Essere, con un atto finito e riflesso che determina il Primo Ente, che è anche il luogo della definizione della ipseità egemonica divina, ovvero dell’Essere Puro in quanto Sé o Ego Universale. L’originaria attività intelligente determinata è di tipo relazionale ma unitaria, l’Essere, nel cogliere il suo essere, si conosce come soggetto e oggetto allo stesso modo, nell’intellezione semplice e indispiegata ripiegata sull’Essere Totale stesso. L’intellezione primaria dell’Essere, che rende l’Essere Intelligibile a Sé, ha un carattere appropriativo e intenzionale primario, perciò produce il primo effetto alterante che rende l’Essere relato a Se Stesso nell’unità dell’Essenza Ontologica determinante.

L’Identità Suprema dell’Essere Sovraessenziale e Sovrapersonale è dunque istituita da una Presenza-Conoscenza Assoluta e Infinita, perciò non è una Presenza duale, né un Testimone relato, questa Identità si colloca oltre la conoscenza finita e determinata, e, a fortiori, oltre la coscienza che inerisce a questa conoscenza. Mediante la Sua Potenza Infinita l’Essere Puro costituisce la presenza autointelligente e autoconoscente immediata a Se Stesso, in questa Presenza, Centro-Punto-Ente concentrante, l’infinità dell’Essere nel Sono stabilisce il “sono Essere” quale luogo metafisico unitario che sintetizza tutte le qualità determinate dell’Essere. L’identità ontologica del “sono Essere” costituisce l’Essenza Universale determinata e perciò anche il principio di tutti gli stati dell’esistenza limitata, a questa identità tutti gli enti partecipano in diverso modo e grado. Solo l’Essere, in quanto “rivolto” senza alcuna modificazione al Primo Ente, può essere definito in modo eminente come Praesens, ovvero precedente o stante innanzi all’Ente, perché praesens è termine composto da prae-, che sta per “innanzi”, “davanti”, e da ens, ente, un termine che è participio presente di esse, dell’Essere inteso in senso infinito. Ciò che partecipa all’Essere, al presente infinito arelazionale e lo rivela in modo finito, è l’Ente, ciò che è posto innanzi, “davanti all’Ente”, è l’Essere in quanto Uno-Bene, Fondamento Assoluto di ogni esistenza e il Solo Essere Reale, l’Unico Essere al di fuori del quale non vi è altro.

In virtù di quanto esposto si può dire anche che, in principio, l’Essere Infinito è presente a Sé nell’Ente, dal quale non si distingue realmente se non per il fatto che l’Ente è il modo dell’Essere di sapersi essere in modo determinato. Prima di questa costituzione, prima dell’atto di sapersi essere, l’Essere non si conosce come Essere dato o Soggetto essente, ma sussiste non duale nell’Identità Suprema del Conoscere-Essere-Infinito. In virtù della sua Pienezza Integrale, l’Essere Totale “trabocca” eternamente  senza mai cessare di essere ciò che è, il suo traboccare rende possibile la comunicazione dell’essere a tutto ciò che nella Possibilità Totale d’esistenza è suscettibile di ricevere l’essere e rivelarlo secondo le sue possibilità. Perciò, secondo il modo della catabasi, l’Essere si media a Se stesso nelle sue ipostasi, nella prima delle quali l’Essere Indeterminato conosce immediatamente Se Stesso, ma non nella sua Pura Infinità, nella sua prima automediazione l’Essere Totale sa di essere Puro Essere Infinito che intellige Se Stesso in modo finito con un atto di intellezione determinata, la quale costituisce contestualmente l’Essere in quanto Ente-Sé. Questo risultato è necessario, in quanto qualsiasi tentativo di oggettivazione dell’Essere Puro, in sé inoggettivabile, non può che essere determinato, perciò il ripiegamento intellettivo dell’Essere su Se Stesso definisce l’Essere in modo determinato e costituisce il Primo Ente limitato.

Nella prima determinazione della scienza ontologica relazionale viene fondato anche il primo cvm-scire di tipo universale, tutto ciò stabilisce che l’atto di coglimento immediato dell’Essere avvenga cvm-scire, con uno scire che polarizza e distingue l’Unità Suprema e l’atto determinato del suo coglimento in modo finito, un atto che definisce l’Unità Ontologica dell’Ente. Con la costituzione dell’attività soggettiva intelligente, che autointellige l’Essere come oggetto e lo definisce nell’intellezione come Ente, l’Essere diviene presente a Sé nella scienza determinata dell’Ente, in questa costituzione, presenza a Sé, scienza di Sé e atto di intellezione con-sciente di Sé sono, di fatto, una sola cosa. Perciò l’Essere si autocostituisce come causa di Sé-Ente e, contestualmente, come presenza conoscente finita di Sé, una presenza alla quale si associa una con-scienza universale finita, che ha un carattere inferiore rispetto al puro conoscere infinito identico all’Essere Puro. Dunque è solo a partire dall’Ente che si determina la conoscenza determinata dell’Essere, e la scienza soggettiva universale, il “consapere principiale di Sé”, nella presenza dell’Ente al suo essere proprio. Il consapere determinato originale definisce anche, in maniera metafisica, la natura dell’Ego, dell’Ipseità Divina, dell’Identità riflessiva di carattere ontologico, elementi che non sussistono nella dimensione assoluta dell’Essere Puro, perciò è possibile dire che il Sé Universale e la Sua Coscienza si sovrappongono all’Essere Infinito e al Conoscere Assoluto e Non Duale che coincide con l’Essere stesso.

A far principio dall’autoconoscenza determinata dell’Essere, si costituiscono successivi e più limitati stati di autorivelazione dell’Essere a Se stesso, in piani e veicoli dell’Esistenza più determinati e più degradati rispetto al primo stato ontologico, nel quale l’Essere appare Esistente, ex-stante nella sua natura non duale, per mediarsi nella sua prima immagine formale intelligibile e intelligente. Ai diversi gradi relativi di conoscenza mediata di Sé dell’Essere corrispondono precisi stati di coscienza, fino al punto in cui cessa ogni coglimento ad extra dell’Essere stesso. Il grado inferiore successivo all’autocostituzione dell’Essere nel consapere determinato, dopo la Sua Rivelazione nella presenza immobile autointelligente del Sé Universale, è dato dalla determinazione articolata dell’Intelletto Universale, il quale, in principio sussiste immoto e inarticolato nell’intuizione semplicissima dell’Essere Unitario Stesso. Nel suo atto originale di intelligere in modo relazionale l’Essere Intelligibile quale suo Fondamento, l’intelletto permane nel semplice sapere di intelligere immediatamente l’Ente, in questa intellezione relazionale dell’Ente, come abbiamo detto, sussiste la presenza immediata dell’Essere a Se Stesso. Una volta che l’Intelletto rivolge l’intellezione a Se Stesso la presenza immediata dell’Essere a Se stesso si “occulta” nel fondo dell’Intelletto, a livello universale però l’Intelletto agisce sempre nella presenza cosciente all’Essere in quanto Ente e si dispiega in un’intellezione articolata che rimane sempre intraontologica. Lo scire dell’Intelletto Universale è di tipo relazionale, lo stesso Intelletto è cosciente di sé solo nella misura in cui il suo atto è portato relazionalmente sul suo Fondamento intelligibile. Nel suo intelligere eterno l’Intelletto Divino attua un conscire immutabile, attraverso il quale fonda stabilmente la sua intellezione eterna nell’Essere Intelligibile, dal quale trae ogni sussistenza e forma, e determina ontologicamente, nell’unità dell’Essere Divino, tutte le essenze degli enti suscettibili di manifestazione.

Passando dalla dimensione universale a quella individuale, nella costituzione dell’intellezione modale propria dell’essenza dell’anima individuale, l’intelletto dell’uomo intellige immediatamente se stesso attraverso l’intellezione dell’Essere Intelligibile, però, dato il modo finito del suo atto, non accoglie l’unità integrale della sostanza divina, ma ciò che di questa sostanza esso può partecipare o fruire con il suo atto specifico. L’intelletto modale dell’uomo svolge la sua intellezione divina senza fruire della conoscenza immediata e integrale dell’Ente, come accade invece per l’Intelletto Universale. In ogni caso, l’intelletto dell’uomo svolge la sua attività cvm-scientia, cioè associando al suo atto la scientia che fonda l’atto stesso del suo intelligere nell’Essere.

Nell’inferiore facoltà dianoetica dell’anima si costituisce l’operazione inferiore della ragione discorsiva. Il soggetto raziocinante si conosce mediante le sue operazioni razionali rivolte a sé, perciò, quando egli ragiona su qualche cosa di altro da sé, non permane presente all’autoconoscenza discorsiva di sé, mentre il soggetto intellettivo rimane sempre presente a sé, perché conosce “l’altro” come se stesso in se stesso, nell’Essere Intelligibile. Perciò l’attività del soggetto razionale non è più fondata immediatamente sull’Essere con-scienza, ma si svolge partecipando dell’Essere in modo relazionale e mediato nelle sue attività discorsive, le quali, per la loro natura, non sono immediatamente coscienti dell’Essere di cui sono condizionata e degradata espressione. Dunque, l’attività dell’anima in quanto ragione non è completamente costituita nel cvm-scire, nel cvm-sapere unitario, in essa sussiste una polarità fra l’atto di conoscersi con-scienza e l’atto di conoscere altro con-scienza, perciò il suo atto razionale può essere rivolto con-scienza ora verso il soggetto psichico, ora verso un oggetto che è altro da esso. L’anima apprende pienamente se stessa con-scienza, è perciò veramente autocosciente solo quando, dopo aver ripiegato la sua ragione su se stessa, sul suo essere razionale, conosce la sua vera natura di anima riflessivamente, allora sa di essere sostanza immateriale conoscente determinata, un grado di immanenza dell’Essere che permane nell’Essere per via della sua radice puramente intelligibile-intellettuale. Allo stesso modo, l’anima svolge un atto cosciente portando la sua attività sugli oggetti quando la ragione conosce gli oggetti nella loro sostanza razionale. L’ente psichico è dunque un soggetto conoscente riflessivo, che rende presente l’Essere secondo la discorsività razionale, egli è cosciente quando svolge i suoi atti razionali conservando la scienza che gli permette di disporre l’attività razionale in conformità all’Essere di cui è rivelazione a quel grado dell’Esistenza. Affinché l’ego psichico possa essere detto cosciente nei suoi atti, relativamente alla natura dell’atto e alla disposizione dell’azione, la scienza razionale di sé o dell’oggetto deve accompagnare tutti i suoi atti razionali, quindi senza la scienza razionale non c’è alcuna vera coscienza negli atti, ma solo sensazione o opinione.

Nell’ulteriore facoltà inferiore di sensazione, l’anima non ha più alcuna scienza definita, seppur mediata, dell’Essere, ma in essa sussiste solo una confusa percezione indeterminata e ignorante dello stesso e della sua presenza in tutte le cose, perciò l’anima, che si limita alla sensazione, non può agire con-scienza, neanche in modo riflessivo. In questo ultimo caso possiamo solo dire che l’anima ha “consenzia”, ma il suo con-sentire non è cvm-scire. Termini migliori non vi sono nel latino e nell’italiano per descrivere la differenza che esiste fra gli stati conoscitivi che si accompagnano all’azione, mentre i greci distinguono fra syn-eidesis, un termine composto analogo a con-scientia, e syn-aisthesis, un altro termine composto che non ha corrispondenza nel latino e che significa “con-sensazione”. L’anima senziente è nesciente, perciò agisce solo unendo il sentire irrazionale ai suoi atti, non lo scire, perciò essa è sempre incosciente di sé, dell’atto e dell’oggetto a cui si rivolge, in essa sussiste solo un senso oscuro e confuso dell’essere, di sé, dell’atto e dell’oggetto. Occorre perciò ben distinguere fra sentire, percepire un dato oggetto senza saperne leggere la natura, e lo scire, che opera sul sentire per stabilire la cognizione distintiva precisa della natura razionale ed essenziale dell’oggetto percepito o entrato in relazione col soggetto sembiante.

L’anima che si limita alla sensazione, come è il caso dell’animale, dell’infante, dell’uomo carnale e bestiale, non può costituirsi nell’autocoscienza, la quale si ottiene solo col compiuto sviluppo della ratio svi, nella quale il soggetto psichico giunge alla piena conoscenza razionale di sé e dunque della sua qualità di ente mediatore dell’Essere in quel dato grado di esistenza. Se la ragione non viene separata dal senso e poi ripiegata sul suo fondamento, il soggetto che dispone di ragione non può acquisire una completa presenza riflessiva a se stesso, perciò non può ottenere nemmeno una disposizione cosciente di sé. L’autocoscienza, in definitiva, è il risultato dell’apprendimento della propria natura animica con scienza vera, con la dovuta scienza dell’essere proprio dell’anima. Grazie all’autoconoscenza psichica si determina il possedersi sostanziale dell’anima, che stabilisce il soggetto in se stesso ed evita qualsiasi decentramento alienante, in altro da sé. Se il processo di introspezione e discernimento, che conduce allo “scire sé”, non viene completato, non si può parlare di vera autocoscienza razionale, perché il soggetto permane in una percezione confusa e inintelligente del suo essere proprio, perciò fruisce di sé solo in modo insciente, irrazionale e indeterminato.

Non è sufficiente percepire sé in modo oscuro e insciente per stabilire l’autoconoscenza razionale, la ratio svi, perché non si conosce che cosa sia realmente ciò che si percepisce, ovvero quale sia la natura dell’essere percepito, ciò che esso è in se stesso. In ogni caso, come vedremo meglio più avanti trattando dell’autoconoscere, l’anima razionale non può ripiegarsi completamente su di sé attraverso un atto che colga il suo fondamento attraverso sé, perché non può attuare l’intuizione puramente intellettuale semplificante, la sola che può intendere immediatamente l’essenza del soggetto intelligente. Alla ragione, di fatto, l’essenza intelligibile del soggetto raziocinante rimane ignota, ad essa è concessa solo una razionalizzazione, una concezione rappresentativa conforme all’essenza del soggetto. Ma se l’anima non cessa di rivolgersi ad altro da sé, non conoscerà, in alcun modo, se stessa, e perciò, soggetta alla sola illusione dell’accidentale identità corporea, patirà tutte le pene che a questa illusione si associano.

Dunque vi è coscienza solo quando il soggetto agente associa scienza all’atto che compie, quando vi è applicazione della scienza a qualche cosa, per cui conscire significa anche “discernere insieme”. Ora, se nell’anima non c’è autocoscienza, l’anima non può applicarsi a sé secondo la scienza di sé, ma l’anima, come abbiamo visto, può disporre di autocoscienza solo se ha raggiunto pienamente l’autoconoscenza, e per ottenere questo risultato occorre praticare la filosofia. Per concludere occorre dire che, sebbene la costituzione dell’autocoscienza psicologica sia un risultato difficile da conseguire, subordinato ad una precisa disciplina filosofica, questo risultato è comunque assai limitato, perché attiene al dominio individuale e psichico della coscienza riflessa, la sola che molti filosofi e psicologici profani trattano, e purtroppo spesso in modo errato, in quanto non conoscono né riescono a concepire altro, parlando talora impropriamente di sovracosciente o, peggio, di inconscio, per gli stati superiori che trascendono l’essere psichico dell’uomo.

Essendo l’Essere l’unica realtà ed il solo reale, si rende presente alle sue mediazioni secondo un grado di trasparenza ed evidenza decrescente. Nella soggettività intellettiva si conosce immediatamente nell’unità dell’essenza dell’uomo, nella soggettività razionale si ragiona riflessivamente, nella soggettività senziente si sente oscuramente, nella corporeità insenziente si oblia a se stesso pur essendo presente. Limitandosi alla soggettività psicologica e alla coscienza relativa, si può dire che esso costituisce un dato grado della rivelazione-manifestazione ad extra dell’Essere nell’Esistenza, attraverso la sua Potenza alterante che fa sussistere l’apparenza del diverso, l’anima umana è dunque un prodotto della catabasi dell’Essere nei suoi riflessi determinati immanenti. In particolar modo la coscienza psicologica attiene alla dimensione individuale dell’Essere e ha il suo principio nella determinazione principale della psyche a partire dal nous. La coscienza dell’Anima del Mondo, così come quella dell’anima individuale, è una forma di coscienza psicologica fenomenica, è il vettore costitutivo dei fenomeni, della manifestazione apparente dell’Essere e del noumeno, in ogni caso è una coscienza fondata sull’Intelletto Universale. La coscienza psicologica è un tratto distintivo particolare dell’anima, di un certo stato dell’essere dell’uomo, in particolare questa coscienza, quando sussiste, inerisce al soggetto razionale, il quale partecipa dell’Intelletto trascendente solo a partire dalla coscienza di sé. Isolata in se stessa, la coscienza psicologica, sebbene sia un tratto dell’anima umana e non di tutte le anime, ha un carattere illusorio, non può essere equiparata a ciò che sussiste negli stati superiori dell’essere, nei quali sono presenti altri tipi di coscienza, che hanno tratti qualitativi ben diversi, oltreché statuti ontologici più elevati. Rispetto alla coscienza psicologica, la coscienza razionale, ad esempio, la coscienza noetica può essere concepita come una “sovracoscienza”, essa, in realtà, è un livello di coscienza superiore, che non ha più un carattere fenomenico, né riflessivo, anche se conserva ancora una certa relazionalità. Un discorso analogo può essere fatto per la “coscienza” propria dell’Intelletto Divino e, a fortiori, per la “coscienza” dell’Essere Intelligibile, mentre per l’Essere Puro non si può parlare propriamente di una “coscienza”, o di una “consapevolezza” in senso distintivo e relazionale, in quanto nell’Essere Puro tali elementi sono presenti nella loro infinità assoluta, arelazionale e non duale. Dunque nell’Uno-Essere è assente completamente ogni relazionalità coscienziale, così come ogni alterità di ente, animo e atto.

È possibile fare un preciso discorso anche per gli stati di subcoscienza e gli stati di incoscienza, i quali hanno un carattere inferiore rispetto alla coscienza psicologica e si collocano in un dominio infraindividuale. Per gli stati inferiori dell’essere rispetto a quello razionale, si può parlare di subcoscienza, in modo relativo, quando si tratta di ciò che si associa all’attività di un soggetto completamente limitato alla sensazione e al sensibile, e di incoscienza per ciò che si associa all’annullamento di ogni stato soggettivo determinato a causa della soluzione dell’ente determinato nella sostanza subsensibile che è del tutto indifferenziata.

In ogni caso la distinzione degli stati degradati di coscienza riguarda solo gli enti coinvolti nella manifestazione individuale, mentre gli Enti che presiedono alla Manifestazione Universale, a far principio dall’Anima del Mondo e, a fortiori, gli Enti superiori hanno una coscienza che permane identica e inalterata in ogni atto. L’intero universo fenomenico è completamente mosso dal Suo Principio Universale, con-scienza provvidente precisa, Esso è coerente in tutti i suoi atti e dunque è perfettamente giusto.

In rapporto a quanto è stato appena detto avremo diversi stati superiori di coscienza, rispettivamente: la Coscienza Cosmica che attiene all’Anima del Mondo ed è associata alla sua attività costituente, ordinante e governante il Mondo; la Coscienza Divina, che attiene all’Intelletto Universale che presiede al Mondo Intelligibile; la Coscienza dell’Unità Divina che è propria dell’Essere Intelligibile; infine la Scienza Infinita identica all’Essere Assoluto Sovraessenziale. L’animo dell’uomo può realizzare questi stati di coscienza trascendenti attualizzando ciò che in esso è condiviso con i relativi Principi Universali.

L’incoscienza assoluta a livello universale integrale non esiste, si può parlare di un’incoscienza solo relativamente alla Materia Universale, nei suoi diversi gradi, e in particolare si trova a livello individuale, nel corpo, mentre l’anima può essere cosciente o incosciente, a seconda del suo stato e di come opera, invece l’intelletto è sempre cosciente. Possiamo fare anche distinzioni relative ad una sovracoscienza o ad una subcoscienza in rapporto alla condizione psicologica individuale dell’uomo, la quale non viene mai adeguatamente trattata da filosofi e psicologi profani, che scambiano volentieri la syneidesis con la synaisthesis, la coscienza vera e propria con ciò che abbiamo definito “co-sentire”, perciò attribuiscono indistintamente la coscienza ad ogni uomo, per non dire a ogni animale, senza fare tutte le distinzioni necessarie.

Ribadiamo dunque, vi è con-scienza solo quando l’agente è conoscente, cioè quando possiede la scienza relativa a sé e all’atto che esso compie, perciò coscienza e conoscenza non possono essere mai disgiunte, quindi un essere ignorante di sé, dell’atto che compie e dell’oggetto a cui si rivolge non può mai essere cosciente. In relazione a quanto descritto è perciò possibile distinguere degli stadi di conoscenza-coscienza da degli stati di ignoranza-nescienza, gli Enti o i Principi superiori dell’essere possiedono stati di conoscenza-coscienza che trascendono la conoscenza-coscienza psicologica e l’attività razionale individuale dell’uomo, questi stati trascendenti non possono essere attinti dalla ragione umana, ma rimangono presenti e in atto eternamente e, attraverso di essi, gli Enti preposti reggono la triplice manifestazione. La limitata coscienza psicologica individuale si costituisce con il passaggio catabasico dell’anima dall’attività intellettuale pura, di carattere universale, a quella razionale, questa coscienza ha un carattere discorsivo e mediato, a differenza della conoscenza-coscienza intellettiva che ha un carattere intuitivo e immediato. La coscienza psicologica è dunque una coscienza relativa e indiretta che si costituisce per riflesso e partecipazione, come l’anima, perciò, per il suo carattere di “esteriorità” rispetto all’essere, fa sussistere la polarità duale fra soggetto e oggetto. A causa del suo statuto la coscienza psicologica non può trovare in se stessa la certezza della verità ontologica e metafisica, ma deve accoglierla dai principi che la trascendono e la fondano, a partire dall’intelletto e dalla sua conoscenza intuitiva ed essenziale della realtà.

Occorre perciò evitare tutti gli errori comuni compiuti dai profani, attenendosi solo alla verità trasmessa dalla divina tradizione sapienziale plurimillenaria. In particolare occorre evitare di attribuire “coscienza” agli animali, o all’uomo “bestiale” qualunque, il quale non ha svolto alcuna precisa disciplina conoscitiva che lo abbia reso uomo, un essere compiutamente razionale, cosciente di sé e dei suoi atti. Occorre altresì evitare di confondere il conscire con il consentire, come accade in tutta la psicologia profana, ma anche in diversi ambienti spiritualisti e a diversi sedicenti “maestri” spirituali, i quali spesso stravolgono anche il concetto di coscienza o di consapevolezza. Parlare di con-scienza o con-sapere è sostanzialmente la stessa cosa, ma si hanno scienza o sapere o non si hanno, perciò colui che non ha scienza, intellettuale o razionale, non può essere definito cosciente, né consapevole, perché egli non può agire con scienza o sapere. Purtroppo è a causa della mancanza di coscienza del loro stato, ovvero è per via della loro ignoranza, che filosofi, psicologi, medici profani e altri compiono quello che compiono, diffondendo errori, illusioni e sviamenti di ogni tipo agli uomini ignari.

Per concludere questo breve discorso dobbiamo dire che la scienza razionale del Vero, dell’Essere, del Reale, ecc., è presente in modo elementare, solo nel soggetto che ha realizzato il primo grado razionale del sapere, il quale possiede l’elementare virtù della prvdentia. Il prvdens, il saggio, è il solo animo che ha veramente coscienza di sé, delle cose e dei suoi atti, perciò egli opera in ogni suo agire con scienza. Il soggetto comune, prima dell’acquisizione della scienza razionale dell’Essere, del Vero, del Bene o di sé, non può essere definito cosciente, perciò, essendo privo della coscienza di sé e dei suoi atti, non può operare con scienza. A partire dalla nescienza sostanziata di sensazione, il soggetto psichico può dare luogo alla conversione che lo immette sulla via filosofica, la via della conoscenza dell’Essere e del Bene, la quale, se rettamente praticata, lo farà passare dalla nescienza alla scienza, dalla incoscienza alla coscienza, fino a raggiungere almeno lo stato del prvdens, il solo che lo stabilisce in modo basilare nel conoscere e nell’operare autocosciente.

 

L.M.A. Viola

[dal libro Psyches therapeia][1] Cicerone, Verr., II, 177; Cicerone, De Fin., II, 28.

[2] Orazio, Epist., I,1,61.

[3] Cesare, De Bel. Gal., V, 56; Sallustio, Cat., 35,2; Livio, III, 60,6.

[4] Cicerone, Att., XII, 28,2; Seneca, Lettere a Lucilio, 117,1.

[5] Sallustio, Cat., 15,42; Cicerone, Tusc. Disp., IV, 45.