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La Filosofia e la realizzazione divina integrale
Pitagora, in senso arcano ed enigmatico, e poi Platone, in senso noetico e poi dialettico, fondando sull’ispirazione divina hanno esposto i Misteri Perfetti relativi alla Realtà Suprema e hanno disposto i mezzi per attuare la via che svela l’Identità Suprema ed attua la realizzazione metafisica integrale. Platone insistette sull’antropologia metafisica, mostrò la natura divina ed eterna dell’essenza dell’anima, inoltre indicò la prassi filosofica che l’attualizza perfettamente, fino allo svelamento dell’unità trascendente esistente fra la hyparxis dell’anima e la Divinità Sovraessenziale.
A partire dalla conversione intellettiva, dalla metanoia, l’anima sviluppa l’anabasi apollinea, fino a raggiungere la perfezione dell’iniziazione all’Unità Divina Suprema e la epignosi integrale. Nella tradizione pitagorico-platonica è presente la nozione metafisica di syngheneia divina, secondo la quale l’essenza dell’anima è “generata insieme” agli Dei, perciò è della stessa natura degli Dei, della stessa stirpe di Dio. L’identità essenziale dell’anima coincide perciò con l’Ente Divino stesso, ma, in estrema ratio, l’anima fonda la sua identità sovraessenziale nell’Uno Bene, principio dell’Ente Universale.
L’anima svela progressivamente la sua identità con l’Uno-Bene al termine dell’anabasi intellettiva, ma dato che la sua essenza ultima coincide con l’Ente stesso, l’identificazione con l’Uno, “causa dell’Ente e della Intelligenza”, comporta una trascendenza del dominio ontologico-divino, quindi anche del piano della teologia unitrinitaria. L’anima, nella sua anabasi, secondo la tradizione platonica, non si arresta al piano dell’ogdoade o della intellezione modale iperurania, ma trascende il suo essere determinato identificandosi al Nous Ipostatico, prima, per compiere la perfetta identificazione all’Uno-Bene, poi, ma ciò non è tutto, perché infine svela l’Identità Suprema nell’Ineffabile Assoluto.
In virtù della permanente e immodificabile realtà divina ed eterna del principio dell’anima, la sua piena attualizzazione richiede solo uno svelamento, che si effettua tramite un processo di anamnesi, di “ricordo metafisico di sé”, che rimuove ogni identificazione erronea del soggetto con altro da sé. L’autoconoscenza introspettiva di carattere ontologico attualizza la realtà ultima del soggetto essenziale, purificandolo per separazione, da ogni velo vincolante e determinante, inclusa la relazione separativa con la dimensione psichica e la distinzione intellettiva. Perciò lo stesso dominio della homoiosis theoi, dell’assimilazione al Dio personale mediante l’anima immaginale fino a realizzare la perfetta somiglianza con Esso, è ampiamente trasceso nella Henosisassoluta senza residuo, descritta in modo chiaro da Plotino.
Solo l’Essere Vero, l’Essere che è, è Alethes, è privo di Lethe, di ciò che vela, occulta. La radice let-, analoga a lat-, indica il nascondimento, l’atto di nascondersi, di rimuovere dalla vista, di sottrarre alla presenza. Il termine latens, latente, lat–ens, indica l’ente nascosto, l’ente occultato, l’ente non presente alla vista. Latere è perciò nascondere, occultare, sottrarre alla vista, mancare alla presenza. La latenza è dunque un’assenza di presenza, una mancanza di attualità dell’ente, per la quale esso non è interamente presente a se stesso. Latitare di conseguenza equivale a nascondersi, sottrarsi, latito è “mi nascondo”, “mi sottraggo”, sfuggo alla presenza.
Il termine lethe indica l’assenza, la non presenza, la mancanza di presenza a sé dell’ente, ciò che rende l’ente non presente a sé. Chi è soggetto a lethe, è sottratto a sé, nascosto a se stesso, alla sua presenza. Perciò il termine lethe è tradotto spesso, anche se in modo riduttivo, come oblio, in quanto oblivivm, o ob–lividvm, significa ciò che è “illividito”, ciò che è stato inscurito, quindi liv-idvs è anche ciò che è diventato scuro, nero. I padri romani traducevano lethe con oblivivm, da cui il senso di oblio, ovvero stato di oscuramento, di annerimento. Riferendo il termine lethe all’intelligenza e alla conoscenza del soggetto, avremo, per senso traslato, che oblio significa stato di perdita della luce, ottenebramento, nascondimento dell’intelligenza, dimenticanza di sé per sospensione della presenza luminosa e cosciente a sé del soggetto. Obliviare, obliare è perciò anche dimenticare, subire una dimenticanza, mentre obliterare è annullare, rendere nullo, invalidare, cancellare, occultare.
Ciò che è alethes è dunque ciò che è privo, a-, di lethe, sotto ogni profilo, perciò è ente che può vantare uno stato di perfetta presenza a sé, senza alcuna inscienza di sé, senza traccia di oscurità e inattualità. L’unico ente che è Puro Atto, pura attualità senza alcuna latenza, è il Primo Ente, l’Essere che è, nulla di Esso si trova in potenza, Esso è perciò privo di ogni assenza, è perfetta presenza a Sé, senza traccia di velami, occultamenti, oscuramenti, alterazioni, dimenticanze.
La perfetta coincidenza con l’Essere che è, perciò rimuove da ogni ente determinato il lethe e risolve lo stato lethaios e il lethargos, il lethe-argos, ossia il lethe a-ergos, lo stato di oblio neghittoso, l’oblio inoperoso, l’oblio inerte privo di energia, di ergos, lo stato di oscuramento pesante, inerte, ottuso e stolido dell’anima nel corpo, l’oblio profondo dell’ente soggetto a lethe. Ciò che determina lethe è l’associazione-identificazione alla materia, a qualsiasi livello, ontologico, cosmologico e psicologico. L’Unico Principio che, associato alla materia, non subisce mai oscuramento, non è mai perciò latente, è il Principio dell’Intelligibile, l’Ente intelligibile puro, stante al di sopra di ogni determinazione materiale e privo di relazione assimilante con la materia–nox.
L’ente determinato, in stato di oblio, non è in sé, ciò che è determinato da altro, si trova ad un dato grado di lethe. Esso dovrà rimuovere le determinazioni letee velanti, attraverso il “ricordo” di sé, l’anamnesi iniziatica, che realizza l’autoconoscenza essenziale e libera l’ente da ogni alterazione-oblio, per restituirlo al suo stato reale fondamentale, alethes, coincidente con l’Essere che è, il vero Sé Intelligibile di ogni ente. Il vero Sé è il solo che si autoconosce perfettamente, in quanto la sua conoscenza coincide col suo essere, e il suo essere coincide con l’essenza stessa dell’Essere che è.
La via che l’ente deve percorrere è la via della Verità, aletheia, raggiunta la quale l’essere è liberato da ogni condizionamento e perciò da ogni limitazione e malia. All’apice della via della Verità il soggetto essenziale intelligente realizza la coincidenza con l’Essere che è, in questa coincidenza si compie l’anabasi intellettiva nell’intellezione semplicissima, immediata e senza distinzione, dell’Ente Divino, nel quale intelligere ed essere coincidono [Parmenide, Poema della natura, fr.3].
Occorre allontanarsi dalla via del non essere, dall’opinione, dall’illusione [Ibidem, Fr.2], per ascendere all’Essere Vero. Ma lo stato dell’intuizione immediata del Sé Intelligibile, nel quale si realizza l’identità con Esso, non costituisce il vertice della realizzazione metafisica suprema, perché l’Essere che è, deve essere trasceso nell’Unità sovraessenziale e sovraontologica, Unità che trascende la Verità stessa, e dunque anche il Vero, e perciò l’Ente e l’Intelletto, nella Henosis.
La dimensione protologico-henologica assoluta, la natura divina suprema, l’essere sovraessenziale dell’anima, la realizzazione metafisica integrale ad essa prospettata dal Dio Apollo e descritta dai Maestri apollinei di sapienza, sue teofanie, costituiscono gli elementi essenziali della Divina Filosofia pitagorica platonica, questi elementi sono comuni alle tradizioni spirituali integrali, ciascuna delle quali consente la divinizzazione perfetta.
Nella filosofia tradizionale, la disciplina realizzativa fonda sulla conoscenza e permette di giungere fino alla henosis attraverso l’intellezione pura ed il suo superamento finale. La realizzazione metafisica integrale prevede l’attingimento del Divino indeterminato e inqualificato, nella sua unità semplice e sovraessenziale, unità che però non può essere raggiunta con “un atto mentale di pura intelligenza” [Proclo, Teologia Platonica, I, 42], perché con questo atto si perviene solo alla limitata realizzazione dell’Essere che è, del Primo Ente Intelligibile. Perciò, nel caso dell’integrale realizzazione metafisica è improprio parlare di “realizzazione spirituale”, in quanto la realizzazione metafisica perfetta si colloca oltre la ragione, ma anche oltre lo “spirito” o l’intelletto, il nous, infatti ben due stadi realizzativi ulteriori separano la semplice “realizzazione spirituale” dallo svelamento della Identità Suprema.
Nel valutare la Divina Filosofia, va evitato l’errore per il quale si produce l’identificazione del nous-intelletto con la ragione, dell’intelligere con il concettualizzare e il pensare. Occorre evitare poi di dire che l’intelletto o lo spirito “diviene” l’Uno, in quanto è l’estinzione dell’intelletto determinato che svela l’Uno, perciò lo “spirituale” deve essere trasceso completamente. Nell’Uno ogni intellezione o prospettiva spirituale è risolta, ridurre l’Uno allo spirito equivale a limitare l’Assoluto ad una ipostasi inferiore. Perciò l’Uno non è mai “soggetto”, né relazionale, né arelazionale, non è un Sé o il Sé, queste categorie hanno valore solo nel solo dominio intellegibile, il cui principio è l’Essere determinato dalla Essenza, non l’Uno.
L’Uno perfetto è Aploun, A-Pollon, privo di ogni molteplicità, dualità, relazione, distinzione, è perciò assolutamente semplice, senza parti e senza alterità. Pitagora e Plotino lo identificano con l’Ineffabile Assoluto.
Ma noi siamo travagliosamente incerti sulle parole che dobbiamo adoperare e parliamo dell’Ineffabile ed escogitiamo dei nomi con il desiderio di denominarlo, come ci è possibile, a noi stessi. Forse, anche il nome «Uno» non è altro che la negazione del molteplice. Perciò anche i Pitagorici, fra loro, lo chiamarono simbolicamente Apollo per significare la negazione della molteplicità <a-pollon>: infatti, se l’Uno, sia come nome che come cosa significata, avesse un senso positivo, esso sarebbe meno chiaro che se non gli si desse alcun nome. [Plotino, Enn. V, 5, 6, 24-30.]
Poi, per indicare la relatività presente anche nel nome Uno e nella sua “visione”, Plotino dice:
Forse il nome «Uno» gli fu dato affinché l’indagatore, cominciando da ciò che significa la massima semplicità, finisse poi col negargli anche questo, pensando che esso, benché scelto felicemente dal suo inventore, non era degno di rivelare quella natura, poiché Colui non può essere compreso né con l’udito né da chi ascolta, ma, se mai, da una visione. Ma nemmeno la visione, se volesse contemplare una forma, potrebbe conoscerlo. [Plotino, Enn. V, 5, 6, 30-35.]
Il sapiente divino deve giungere alla “visione senza visione” dell’Uno, in quanto Bene in Sé, oltrepassando la stessa Idea del Bene, cioè la prima intelligibilità dell’Uno-Bene in quanto Ente, Idea, nella quale fondano la Scienza Divina o Sophia, e la Verità, Aletheia.
«E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l’essere conosciuti, ma anche l’esistenza e l’essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene ente, ma ancora al di sopra dell’ente, superiore ad esso in dignità e potere.» [Platone, Repubblica, VI, 509 c].
Dunque il Bene è epekeina ontos, oltre l’essere esistente, ed anche epekeina tes ousios, oltre l’essenza dell’essere esistente, ma è altresì epekeina tou nou, oltre l’ipostasi dell’intelletto e della sua attività. Rispetto agli enti si presenta come Puro Essere Infinito, senza alterità e dualità, perfetto Uno-Bene, ma in realtà è Uno-Uno, al di là di qualsiasi essenza, conoscenza, esistenza, principialità e relazione.
Colui che ha “realizzato” l’Identità Suprema Ineffabile si è identificato a ciò su cui ogni realitas-realtà ha il suo essere, il suo principio e fondamento, perché solo l’Uno-Uno è propriamente realis, reale, o regalis, regale. Il perfetto realizzato si è dunque stabilito nell’Unità Suprema, nella sua vera natura e ha svelato la Plenitudine Suprema dell’Essere Integrale. In questo modo il suo animvs, reso magnvs dall’attuazione della Misura Perfetta, trascende il dominio intelligibile e il suo vertice, l’Idea del Bene, e perciò anche “la contemplazione di ciò che è ultimo tra le cose che sono” [Platone, Repubblica, VII, 532 c], quella contemplazione che deve essere raggiunta in prima istanza, mediante la paideia-cultura dell’essenza dell’uomo, l’intelletto, e che porta al luogo più beato dell’Essere [Ibidem, VII, 526 e], superato il quale si approda all’Unità Suprema, nella quale l’animvs, anche a livello esistenziale, si estingue nella comprensione infinita dell’Essere Puro, equivalente alla Pienezza della Perfezione, propria alla sovrapersonalità assoluta dell’Uno-Apollo.
Le parole di Proclo relative all’accesso all’Ineffabile Realtà Suprema sono chiare:
Diciamo infatti che in ogni caso cose eguali sono conosciute per mezzo di eguali cose. E quindi, evidentemente, il sensibile con la sensazione, l’opinabile con l’opinione, la discorsività col discorsivo pensiero, l’atto intuitivo della mente con la mente. Cosicché anche con l’Uno, ciò che in sommo grado è Uno, e con l’Ineffabile, ciò ch’è Ineffabile. [Proclo, Teologia Platonica, I, 3]
Oltre l’intelligenza l’Uno-Bene, oltre l’Uno il puramente Ineffabile, il perfettamente A-pollon, attinto con ciò che è ineffabile. La tradizione pitagorico-platonica ha sviluppato nei secoli, in un modo formale e dialettico sempre più esteso, la “teologia platonica”, fino a giungere a Proclo, il quale ha esplicitato tutti i contenuti impliciti nella metafisica integrale esposta dal Maestro Divino Platone, sistematizzando la Sapienza Perfetta senza dogmatizzare, approntando un corpus scritturale che media l’essenza del Mistero, il quale, trasmesso ai posteri nella turbolenza della parte finale dell’età oscura, doveva garantire la permanenza della luce apollinea fino alla fine e rendere possibile la realizzazione dei “misteri santissimi e supremi” agli aspiranti qualificati.
Una volta che l’animo si è risolto nel suo Principio sovraessenziale, l’Esistenza Universale intera viene reintegrata nella trasparenza dell’Uno, ogni ente viene così immediatamente conosciuto nella sua principalità assoluta e nella sua funzione teofanica. Questo “stato” di realizzazione metafisica consente l’attualizzazione integrale della perfezione gloriosa della Bellezza Suprema, implicita nell’Uno e nella sua Potenza, mediante la henofania della Misura Suprema, o del Bene, in tutti i piani dell’Esistenza. La compiuta evidenza della trascendenza nell’immanenza, oltre ogni dualità, è alla base delle religioni metafisiche integrali che presentano un carattere assolutamente “positivo” e “totalizzante”, e dunque onnicomprensivo, attuandosi esse nella completa “apollinizzazione” di ogni ente determinato. In queste religioni, in virtù della radicale immanenza del Divino ad ogni ente, è compiuta una ritualizzazione integrale di ogni aspetto della esistenza, personale e civile, tanto che ogni dimensione delle civiltà che fondano su tali religioni, ne è investito.
Il termine della realizzazione integrale della natura dell’uomo coincide dunque con l’apice sovraessenziale della Sapienza Infinita, a questo fine conduce una società normale, mediante la vita civile religiosa attuata nella città sacra, nella quale l’Ordine dell’Essere, e dunque la pienezza della Giustizia, può essere mantenuto nella sua perfezione nella perpetuità, come una teofania trasfigurante ogni istituzione.