
La formazione dialettica
Il filosofo giunge ad attingere ciò che è sempre immutabilmente lo stesso, il Principio di ogni essere determinato, nel quale sussiste l’Ipsvm Esse, il principio dell’identità permanente, incorruttibile e inalterabile dell’essere determinato dell’anima. Il filosofo pratica la separazione dal corpo per accedere dapprima all’episteme dianoetica, poi, attraverso la disciplina dialettica pura, raggiunge la noesis, la scienza intellettiva. In tal modo dispone di un’attività intuitiva e, allo stesso tempo, articolata, ma non discorsiva come quella della ragione, un’attività che si muove da Idea a Idea, fino al coglimento della Prima Idea, del Primo Modo di svelamento dell’Essere Puro nell’Essere Intelligibile. Quando l’intelletto coglie l’Essere Intelligibile arresta in Esso ogni sua attività e si svela identico allo stesso oggetto intelligito. Questo risultato fa del filosofo veramente un dialettico, egli, attraverso la dialettica anagogica ed ascensiva, raggiunge la dimensione iperurania e poi, attraverso un procedimento sinottico, abbraccia l’intera molteplicità intelligibile, fondando sulla sua unità trascendente. Solo il filosofo, in quanto vero dialettico, ha la capacità di vedere l’insieme intelligibile, sinopsis, e, allo stesso tempo, può raggiungere l’Intero, Olon, e il Tutto, Pan. Compreso l’Intero Intelligibile, da questo punto, solo da questo punto, il filosofo stante nel cuore dell’Essere, nella Sua Essenza, può risolvere l’autocontemplazione finita nella contemplazione infinita, sovraessenziale e sovraintelligibile, dell’Essere Puro. Nella visione rigorosamente non duale del perfettamente intero, del veramente reale, anche ogni relazionalità interna, propria all’Essere che intellige Se Stesso, viene trascesa nella pura arelazionalità della teoria infinita, che è una sola cosa con l’Essere Supremo. Questa realizzazione metafisica integrale determina un’integrazione dell’ente determinato nel sovraente, facendolo così “poggiare” sul “senza appoggio”, sul “senza relazione”, sul “senza determinazione”. Il radicamento senza fondo nell’Essere Totale permette la trasformazione integrale di tutti gli elementi determinati dell’ente manifestato, fino al suo stesso veicolo sensibile che viene tinto della Gloria dell’Assoluto.
Nella perfezione del coglimento integrale della Realtà si conclude l’ascesa autoconoscitiva dell’anima e la relativa cura di sé, in essa la divinizzazione assoluta e quindi la vera salute. La natura integrale dell’Uomo coincide dunque con l’Essere non duale, ma il suo svelamento attualizzante e realizzativo passa attraverso l’attività essenziale del nous, mediante il quale l’anima deve sapersi ritrovare, al vertice della contemplazione noetica, puro Essere Intelligibile, superando così la sfera della psyche immaginale e la relativa dianoia, con la sua attività di carattere discorsivo e alterante. Raggiunto questo vertice non resta che accedere alla pienezza della contemplazione dell’Essere Intero, con la quale il filosofo si stabilisce nella esychia, nel Silenzio dell’Essere e nella Quiete dell’Unità, ma anche nella makariotes, nella beatitudine divina omnicomprensiva. La pienezza della contemplazione divina equivale anche al completamento della conversione, della metanoia, del rivolgimento del nous al suo Fondamento, oltre il quale non vi è niente altro da raggiungere.
Prima di giungere a tanto il filosofo dovrà acquisire tutte le scienze e poi accedere alla dialettica, le varie scienze devono essere considerate come preparatorie alla dialettica e, in senso generale, vanno classificate come appartenenti più alla propaideia, perché, a voler essere rigorosi, la specifica paideia filosofica ha il suo vero e proprio inizio con la pratica dialettica, perché essa è la disciplina che immette l’anima all’essere vero e la libera da ogni soggezione all’alterità e all’illusione. Perciò le scienze devono essere trattate come parziali preparazioni alla dialettica, esse hanno un carattere relativo se il filosofo le affronta conoscendone la natura e il ruolo e non le considera come autonome e sufficienti per se stesse, o addirittura assolute e coglienti per intero la realtà. Se così facesse finirebbe per prendere un’altra volta l’illusione per realtà e il falso per il vero, come accade agli pseudoscienziati attuali, perciò egli deve trascendere il dominio delle scienze relative, le quali non portano immediatamente e completamente sul vero, per affrontare la prassi dialettica.
«Io sono convinto – ribadii – che la ricerca su tutti gli ambiti che abbiamo passato in rassegna porterà il nostro studio a qualche risultato concreto nella direzione che ci siamo proposti e non sarà fatica sprecata, solo se riuscirà ad approdare a ciò che questi campi hanno in comune, al cespite unitario, al reciproco collegamento dei loro punti di contatto. In caso contrario sarà un lavoro inutile».
«Anch’io – confessò – ho quest’impressione. Ma, Socrate, l’impresa di cui parli mi sembra terribilmente impegnativa».
«Parli del proemio – domandai –, o di qualche altra parte? O forse ignoriamo che tutto quanto s’è detto altro non è che il preludio di quel canto che ancora si deve imparare? Non credere, infatti, che quelli che hanno acquisito queste competenze siano dei dialettici».
«No per Zeus – disse –, tranne pochissimi tra quelli che ho incontrato».
«Ma – ripresi – gente che non è capace di dar conto e dimostrazione delle cose come pretendere che conosca quei principi che affermiamo essere necessari?».
«No – ammise –, non potrebbero conoscerli».
«Eppure, Glaucone – osservai –, non è proprio questo il canto che il procedimento dialettico esegue? E benché tale canto sia di natura intelligibile la facoltà della vista può imitarlo, nella misura in cui, si diceva, essa riesce a guardare agli animali in carne ed ossa, agli astri in quanto tali e, da ultimo, al sole medesimo. Allo stesso modo, come essa è giunta al vertice del sensibile, così uno può giungere fino al vertice dell’intelligibile solo quando, per mezzo del procedimento dialettico e prescindendo totalmente dall’apporto delle sensazioni, incomincia, con la sola forza della ragione, a tendere a ciò che è l’essere di ciascuna realtà, senza cedere mai, almeno finché non ha colto con il puro intelletto l’essenza stessa del Bene».
«Non c’è il minimo dubbio», riconobbe.
«Ebbene, non è forse questo quello che tu chiami procedimento dialettico?».
«Come no?».
«E la liberazione dalle catene – dissi – e il voltare lo sguardo dalle ombre alle statuette e alla luce, e ancora l’elevarsi dalla caverna al sole, e giunti qui, l’impossibilità a vedere gli animali, le piante e lo stesso splendore del sole, e invece la capacità di vedere le immagini divine riflesse nell’acqua e le ombre degli oggetti reali – nota –, non più ombre di statue prodotte da una luce diversa da quella del sole, la quale andrebbe giudicata al più come un semplice riflesso di essa-; insomma, tutto questo lavorio che è frutto delle scienze che abbiamo preso in considerazione, ha appunto la funzione di elevare la parte superiore dell’anima alla visione della parte suprema dell’ente, come poc’anzi la facoltà più perspicace del corpo si elevava verso la parte più splendente del mondo fisico e visibile»[1].
Tutta la disciplina filosofica svolta fino all’acquisizione della scienza dianoetica non è, insomma, che un preludio, un proemio ad un canto, che ancora il soggetto deve “cantare”, soffermarsi su questo punto è fondamentale, affinché il discente non si inganni e pensi di essere arrivato alla meta finale della sua ascesa, quando in realtà si è solo preparato alla vera ascesa e il risultato effettivo a cui deve giungere è tutto da acquisire. Colui che è giunto alla scienza “matematica”, sebbene abbia già tanto operato, non ha ancora acquisito quella conoscenza che è propria di chi diviene compiutamente dialettico. Pochi giungono alla perfezione della conoscenza dianoetico-matematica, della conoscenza cosmologica, ma ancora meno oltrepassano questa conoscenza relativa e si fanno dialettici, ciò accade anche per il fatto che il conseguimento della conoscenza matematica richiede una lunga e faticosa paideia[2].
La disciplina dialettica richiede un ulteriore passaggio, e quindi un perfezionamento della paideia, col quale essa viene portata al suo compimento. In effetti nell’ultimo stadio della paideia si tratta di portare alla sua estrema conclusione operativa ciò che è stato sviluppato fin dall’uso elementare della disciplina dialettica, il cui modo è, in sostanza, sempre lo stesso, in tutto il corso del suo sviluppo. Socrate lo ricorda dicendo che la gente non è capace di dare conto e dimostrazione delle cose, ma nemmeno i matematici che sono giunti ad un livello di conoscenza della realtà più profondo, perciò essi non possono pretendere di conoscere quei principi che indirettamente essi affermano essere necessari, dai quali partono per sviluppare le loro argomentazioni dimostrative. Socrate adopera la dialettica a partire dalle sue conversazioni protreptiche, le quali sono volte a rendere ragione dell’ignoranza, per lo più della duplice ignoranza, che caratterizza i diversi uomini, al fine di innescare in loro quel processo convertivo che permette loro di risolvere l’afflizione che patiscono. Attraverso il metodo ironico, fondato sull’elenchos, la dialettica denuda la comprensione del soggetto, la riduce alla sua essenza, permette di rendere ragione del principio su cui fonda, poi, di livello in livello, la dialettica si approfondisce fino a sviluppare l’interezza della sua potenza, così essa permette all’anima di giungere alla perfezione della conoscenza integrale, per la quale si produce la comprensione identificante del Principio Supremo di tutte le cose.
Dato che tutto fonda sull’Essere, e che l’Essere per tutto è Bene, in esso sussiste il Reale, ciò che sussiste invariabile e autoevidente, l’Essere Vero, in esso si completa “il viaggio dell’anima”. Se essa si arresta in qualche grado relativo della scienza partecipa solo parzialmente all’essere evidente, perché in queste “scienze” esso ha un carattere di apparenza e perciò anche di illusione e, relativamente al suo essere reale, anche di falsità. Se si scambia un grado relativo di partecipazione all’essere con la sperimentazione dell’essere in se stesso, si è vittima di qualche grado di ignoranza, questo errore fissa l’anima nella pena e nell’alterità sofferente, senza che vi sia possibilità di risoluzione. Ma essa deve procedere al di là dell’apparenza, oltre il sensibile, che rispetto all’intelligibile è riflesso, immagine, e perciò anche illusione, ma poi deve oltrepassare anche l’intelligibile, il quale, a sua volta, rispetto al sovrintelligibile è riflesso e dunque anche illusione se ritenuto reale per se stesso.
Innanzitutto occorre andare al di là di ogni apparenza e di ogni alterità sensibile, al di là del visibile e dei suoi riflessi, dunque oltre la doxa, per accedere al puro intelligibile e all’episteme attraverso la dianoia, poi bisogna ascendere nell’intelligibile fino al suo vertice, attraverso il procedimento dialettico, che prescinde completamente da qualsiasi apporto della sensazione e della sfera sensibile: “La vera conoscenza non è in queste affezioni [sensibili] ma nel ragionamento che si fa attraverso di esse: infatti in questo modo è possibile, a quel che sembra, raggiungere l’essere e la verità, in quello [il modo delle sensazioni] è impossibile”[3], dunque la sensazione non può mai raggiungere la verità, che ha un carattere intelligibile, e perciò chi si arresta alle sensazioni o alle opinioni non ha vera conoscenza. Va ricordato che anche le “opinioni vere” non restano mai ferme, perché portano sul divenire, per cui “… se uno non le lega con un ragionamento causale [non hanno permanenza nell’essere]. Questa è, caro Menone, la reminiscenza [anamnesis], come abbiamo ammesso nei discorsi precedenti. Una volta legate [le opinioni vere], diventano prima di tutto scienze e poi stabili. Per queste cose la scienza vale più della retta opinione [orthèdoxa], e grazie al legame la scienza differisce dalla retta opinione”.
La dialettica fa passare l’opinione vera al rango di scienza stabile nell’essere, l’opinione, anche se vera, riguarda sempre ciò che è e non è, l’opinabile, mentre la scienza ha per oggetto solo ciò che è, il veramente conoscibile, per cui gli uomini che non sono totalmente afflitti dall’ignoranza, e pertanto sono afflitti solo dal rapporto con ciò che non è, opinano tutte le cose, ma non conoscono nulla di ciò che opinano, mentre coloro che hanno rapporto con l’essere conoscono tutte le cose e non opinano[4]. Se consideriamo le cose dal punto di vista della vera conoscenza, i comuni scienziati opinano, magari hanno anche “opinioni vere”, ma instabili, non radicate nell’essere, per cui sono soggette alla relatività delle apparenze e del divenire, quindi essi non possiedono la “vera scienza”, che può essere solo causale e universale, e dunque va collocata oltre l’universo sensibile e la facoltà della ragione. La ragione discorsiva rivolta al solo dominio sensibile non esce mai dal dominio della doxa, solo se il ragionamento viene completamente astratto dal sensibile può accedere alla scienza dianoetica prodotta da ragionamenti causali procedenti da operazioni ontologiche. Solo il ragionamento totalmente separato dal corpo, dal sensibile, dal divenire può acquisire verità e conoscenza, solo la pura ragione può accedere agli intelligibili secondi nella loro purezza e, per mezzo di loro può risolversi nell’intellezione istantanea del vero[5]. È comunque erroneo pensare che la ragione non può essere trascesa e che anche la pura dianoia sia il limite a cui il filosofo può giungere senza alcuna ulteriorità. L’accesso alla conoscenza intellettiva, e persino a quella sovraintellettiva, è il fine della vera filosofia, per cui il soggetto che filosofa diviene “sofo”, e poi anche “ipersofo”, quando oltrepassa la conoscenza intelligibile in quella suprema attraverso la ipernoesi.
Vi è poi da dire sulla conoscenza causale come anamnesi, a partire dalla affermazione: “… sempre la verità degli enti è nella nostra anima …”[6], perché nella sua essenza divina l’anima contiene le Idee universali, mentre nella sostanza della sua ragione, nel centro della facoltà razionale, nella sinderesi, l’anima contiene tutte le ragioni immanenti delle Idee. Il processo della conoscenza individuale, sia che avvenga per stimolo dialogico-dialettico, sia per altri “contatti” attivanti, si configura come un riconoscimento della forma in potenza, alla luce della forma in atto. L’anima incarnata, se rimane limitata alla sensazione, percepisce le forme intelligibili immanenti nella materia, gli eidola o le icone, rimanendo incosciente della natura della sua esperienza conoscitiva. Solo un processo di riflessione dialettica porta l’anima a prendere coscienza dell’immanenza delle forme intelligibili in lei e della modalità per cui riconosce oscuramente le forme sensibili fuori di lei. L’oggetto sensibile è informato dallo stesso modello che informa l’anima, ma l’anima può astrarre la forma dalla sensazione ed elevarla alla ragione pervenendo al ricordo della presenza delle forme razionali, e di quelle intellettuali, in lei. Grazie al processo dialettico, che si svolge in modo separato dal sensibile, l’anima fa passare dalla potenza all’atto la verità già presente in essa, le conoscenze innate che fanno parte della sua sostanza, fino a portare in atto il fondo ultimo del suo essere, che coincide con lo stesso Essere Supremo, ovvero con il “Vero Assoluto”.
Dopo questo breve discorso sull’anamnesi è facile comprendere quale sia la portata iniziatica del dialogo platonico e quale sia il risultato realizzativo a cui il dialogo maieutico condotto dal Maestro dialettico iniziatore conduce l’anima, il Maestro, attraverso il domandare, permette ad essa di giungere prima all’autoconoscenza e poi alla conoscenza suprema. Se la verità dell’essere è già intrinseca all’anima, si tratta solo di farla passare dalla potenza all’atto, per cui Socrate, come una “levatrice”, fa “nascere” la verità nell’anima attraverso il processo di esplicazione dialettica della stessa, fino a portarla all’evidenza della coscienza riflessa. Egli porta l’anima del discente a “partorire” sophia, ma questo parto può avvenire se l’anima è gravida e prossima alla maturazione, altrimenti se non è gravida non può essere messa nella condizione di partorire[7]. Il Maestro interroga, invita all’autoindagine e controlla se l’anima partorisce il vero o il falso, egli opera come la presenza di Apollo, come l’intelletto agente su quello paziente, egli agisce per far emergere la verità, la cognizione del vero essere, perciò, proprio come nel travaglio del parto, svolge un’azione precisa affinché il “nuovo nato”, e lo stato dell’essere corrispondente, siano conformi a ciò che l’anima deve realizzare. Il processo che stimola gradi di autoindagine via via più profondi porta l’anima a porre in atto tutti gli stati superiori dell’essere, fino al punto in cui essa si stabilisce nello stato supremo dell’Essere e consegue l’iniziazione apollinea perfetta.
Solo in modo dialettico, attraverso il puro intelletto separato, si può tendere all’Essenza di ciascuna realtà, per coglierla in se stessa, ciò avviene ascendendo di essenza in essenza, finché con il puro intelletto si attinge all’Essenza stessa del Bene. La dialettica costituisce dunque la disciplina liberatoria per eccellenza, è solo attraverso di essa che la liberazione dalle catene e il voltare lo sguardo dalle ombre alla luce avviene in maniera completa, perché la dialettica è la sola arte che permette di oltrepassare il limite della caverna, per fare uscire l’anima dal mondo e condurla direttamente alla visione integrativa nel Sole Intelligibile. Dunque solo accedendo alla dialettica la paideia, che ha portato il filosofo al vertice delle scienze intermedie, raggiunge il suo frutto, perché con le scienze relative l’anima è stata elevata fino al limite della caverna o del mondo e la sua parte superiore è stata completamente orientata alla parte superiore dell’ente, così come è successo per la parte migliore del corpo, in questo modo essa viene elevata dalla visione di ciò che vi è di più splendente nel mondo fisico alla contemplazione della fonte metafisica di tutte le luci.
[1] Ibidem, VII, 531c-532c.
[2] Platone, Teeteto, 186c.
[3] Ibidem, 186d.
[4] Platone, Repubblica, V, 479d-e.
[5] Platone, Fedone, 65c-66a.
[6] Platone, Menone, 86b.
[7] Platone, Teeteto, 150c-d.
(tratto da Viola, L.M.A., Psyches Therapeia, vol. II)
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