Fin dall’origine la filosofia è stata costituita come un orientamento coerente e unitario di tutta la persona a sophia, perciò la pratica della filosofia presuppone una specifica condotta di vita, la quale, nella sua integralità, già nella società antica, non poteva essere praticata da tutti. La qualità degli uomini del VI secolo a.C. era già degradata, tanto che la maggioranza di essi non poteva dedicarsi a questo sommo fine dell’esistenza, per cui la vita filosofica si distinse dalla vita comune dei molti. Coloro i quali decisero di dedicare la loro vita interamente a sophia si riunirono nel thiasos pythagorikos per creare le migliori condizioni di vita al fine di raggiungere il loro scopo, perciò si procurarono i mezzi e il tempo dovuti per dedicarsi interamente alla purificazione filosofica e alla divinizzazione. A questo “isolamento” dalla società ordinaria è stato associato anche un esoterismo di metodo, che immetteva ad un esoterismo della disciplina, così venne a crearsi una prima specifica distinzione fra coloro che si trovavano “fuori” e coloro che si trovavano “all’interno” dell’istituzione filosofico-iniziatica. Questa separazione generò, fin dall’antichità, un particolare contrasto nei confronti dei filosofi e molte opinioni si diffusero sulla “stranezza” della loro condotta. Ciò valse in particolare quando Socrate diffuse la filosofia fra i suoi concittadini ateniesi e assunse una condotta e dei costumi che si distinguevano nettamente da quelli comuni. Ben presto il philosophos venne definito atopos, ἄτοπος, ovvero privo di una precisa collocazione in qualche luogo, un soggetto che non è possibile classificare con le categorie mondane comuni. In quanto amante di sophia, il filosofo è dedito a ciò che ha natura divina e perciò la sua attività si colloca al di là delle comuni azioni umane, quindi egli si rende progressivamente estraneo al mondo, alle cose che in esso si dispiegano, e ai modi di coloro che sono immersi nel mondo e svolgono la loro vita interamente in esso.

Il modello della vita filosofica è rimasto sempre quello pitagorico, anche se alcuni filosofi hanno apportato alcune loro variazioni allo stile di vita atopico del filosofo, tanto che Socrate divenne modello di un certo modo di fare filosofia, ma poi Platone, giustamente, ha riportato la filosofia all’interno dell’istituzione religiosa e iniziatica, che la rappresenta nella sua natura più vera. Sia che il filosofo si estranei dalla società e viva in una struttura istituzionale, nella quale è reso più agevole il perseguimento di sophia, sia che esso viva, in qualche modo, nella società, il filosofo rimane sempre atopos, la sua atopia è intrinseca alla sua scelta di vita, in quanto, prima di essere un modo di vivere, la filosofia è una scelta dell’anima, una scelta interiore che si costituisce quando l’anima ha compiuto la conversione del suo essere e dei suoi atti al suo vero fine di bene. È a causa di questa scelta che il filosofo ordina ogni sua azione alla realizzazione di quanto ha stabilito voler perseguire, ed egli è tanto più valevole ed efficace quanto più è coerente, in tutti gli aspetti della sua esistenza, con la sua scelta filosofica.

La hexis filosofica è la disposizione normale che ogni uomo dovrebbe avere per ricostituire il suo stato sapienziale originale, per cui il filosofo va considerato come l’uomo “normale”, non quello anomalo, strano, bizzarro, ciò accade perché, ieri come oggi, gli uomini comuni sono talmente lontani dalla disposizione normale al bene che chi la presenta sembra un essere totalmente avulso dal contesto “normale” ordinario. Il filosofo è l’uomo retto nella sua condizione normale di volontà, giustamente orientato alla sapienza, unico vero bene da realizzare. Ribaltando le cose, colui che organizza la sua vita in accordo con la sua scelta filosofica appare come “anormale” o “folle” in una società di uomini dediti all’ignoranza e al vizio, egli appare “bizzarro” ed estraniato dalla società se non vive in modo lussurioso, avido e ambizioso, perciò è criticato e deriso da coloro i quali sono effettivamente anormali e patiscono uno stato di stoltizia, dato dalla completa ignoranza della realtà delle cose.

Dato che la scelta di vita del filosofo è completamente diversa dalla scelta di vita del non filosofo, perché l’uno persegue la sapienza e l’altro il piacere o l’onore, necessariamente vi sarà anche una certa differenza, o persino un’incompatibilità, fra i diversi bioi, i generi di vita. La visione convenzionale dei molti, sulla quale poggiano le istituzioni della società comune, è una visione fondata sull’ignoranza e non sulla conoscenza, mentre il filosofo si è convertito alla filosofia perché ha raggiunto un primo grado fondamentale di conoscenza, per il quale ha visto che tutta la presunta conoscenza umana non è che ignoranza e stoltezza. Una volta che ha saputo di non sapere nulla, egli ha ritenuto vano e insensato ogni indirizzo di vita che si accordi alla stoltezza dei molti, e perciò sia contrario al tipo di vita filosofico.

La società comune è profana, non è fondata sulla Legge Divina, questo scollamento si era già prodotto nell’antichità. Il filosofo non può seguire la via degli uomini stolti, egli vuole vivere cercando solo l’accordo con Dio e la Legge Divina, perciò vive nella Città Universale, nella quale sono costituiti gli Dei e gli uomini secondo una Giustizia che ha un carattere eterno, una Giustizia che, incarnata, diventa l’attuazione pratica dell’ideale di sapienza che il filosofo persegue. Il filosofo vive perfettamente integrato nella società se essa traduce in sé la Legge Divina, ma egli entra in contrasto con la città, il suo governo e le sue istituzioni, se si allontanano dall’osservanza della vera Giustizia. Fintanto che egli crede di poter agire per ristabilire una situazione politica corretta si impegnerà all’interno della società deviata, ma se ritiene che la città è talmente corrotta da non potere fare più nulla per essa, il filosofo farà una vita completamente ritirata dall’impegno civile, come è avvenuto tante volte nel corso della tradizione.

Poco tempo dopo la definizione della via filosofica si pose la questione relativa a quale fosse la condotta filosofica migliore fra quelle proposte dalle diverse scuole, ciascuna delle quali forniva una sua precisa linea riguardo al modo di perseguire l’ideale filosofico, nei diversi contesti e in relazione ai diversi tipi di società. Le dottrine, i dogmi, le pratiche, gli esercizi filosofici delle diverse haireseis filosofiche furono determinate dalla paideia filosofica che ciascuna di esse si proponeva di diffondere e di promuovere fra gli uomini. Resta inteso che il filosofo tradizionale antico non è un semplice “dottrinario”, non è qualcuno che si sforza di elaborare visioni del mondo astratte, ma, per esso, la filosofia è una opzione esistenziale integrale, che coinvolge tutta la sua persona e dunque ogni aspetto della sua condotta. Il filosofo è essenzialmente qualcuno che incarna, in ogni tratto del suo vivere, i principi a cui aderisce, la verità dottrinale che egli ha accolto si risolve in formulazioni sintetiche, sentenze non troppo articolate dialetticamente, ciò che conta è che vi sia di esse una comprensione operativa e realizzativa, perché il filosofo vuole che la verità diventi la sua carne. Perciò non esiste un vero filosofo che non attui nella sua vita quanto pensa o dice, perché il vero filosofare è vivere secondo filosofia, è attuare un bios che rende sapienti, ma essere sapienti non equivale a possedere delle nozioni astratte sulla sapienza, su Dio, sulla Realtà e sul Bene, come accade anche oggi per i professori universitari, ma significa essere buoni, giusti, santi, significa attuare esistenzialmente, corporalmente, la sophia, in tutta la persona, la società e il mondo. Errano grossolanamente quanti oggi presuppongono che ogni uomo faccia “filosofia”, che il suo solo pensare, che il suo solo porsi certe domande sia “filosofare”, questi non sono che abbozzi oscuri e del tutto privi di un’adeguata corrispondenza a ciò che è autenticamente filosofia, sono gli atti propri di una ragione titanica smarrita, che denotano esclusivamente lo stato di ignoranza non illuminata di un’anima che ha delle istanze di conoscenza, ma disordinate e inadeguate all’oggetto verso cui l’istanza tende, per lo più non avendo nemmeno la coscienza elementare di che cosa sia ciò verso cui tende. Già nell’antichità sono stati presi di mira coloro i quali si consideravano filosofi pur non essendolo effettivamente, poiché il filosofo presenta determinate qualità, mentre i non filosofi ne hanno tutt’altre. Purtroppo chi è afflitto da duplice ignoranza ignora di ignorare e, a causa della sua disgraziata ignoranza crede di essere sapiente e giusto, mentre è insipiente e ingiusto. Per via dell’incoscienza della pena che soffre, l’insipiente non ha alcun moto ordinato a risolverla.

“Nessuno degli Dei filosofa o desidera diventare sapiente, infatti lo è già; e se esiste qualche altro saggio, neppure quello filosofa. D’altra parte neppure gli ignoranti filosofano né aspirano a diventare saggi: infatti è questa la disgrazia dell’ignoranza, quella di credere di essere belli, buoni e saggi quando non lo si è. Colui che non è consapevole di essere privo di una cosa non desidera ciò di cui non pensa di avere bisogno”[1]. 

I filosofi sono coloro che hanno costituito compiutamente una chiara hexis filosofica e hanno convertito il loro eros in modo univoco nel senso di sophia, sanno a cosa si dirigono e partono dalla compiuta conoscenza della loro radicale ignoranza. Per costituire queste condizioni basilari è necessaria un’opera propedeutica, preliminare all’avvio della disciplina filosofica, la quale, nel tempo attuale, pochi uomini possono compiere nella sua completezza. Non si può nominare “filosofo” l’uomo comune, ma neanche colui che si applica alla filosofia in modo libresco e astratto senza seguire l’autorità dei Maestri della tradizione. Sia l’uomo comune, che l’erudito di filosofia, sono tutt’altro che filosofi, essi ne costituiscono proprio la negazione, in quanto non sono disposti a prendere coscienza della loro condizione di ignoranza radicale, né desiderano effettivamente conoscere questa condizione e agire di conseguenza. Non amano la sapienza, ma la superbia e l’amor proprio titanico, per cui non hanno un modo di vita interamente ordinato alla sapienza, ma sono interamente disposti in senso opposto, nonostante l’illusione di molti in senso contrario.

A questo grossolano errore se ne associano diversi altri. Ad esempio si pensa che ciascuno possa filosofare da sé o che ciascuno debba essere indotto a curarsi da sé, oppure che ogni individuo debba inventare la sua filosofia o il suo modo di dare risposte ai problemi che esso stesso pone. Ma il vero filosofo si rapporta ad una realtà oggettiva che trascende ogni soggettività e ogni relatività, perciò occorre compiere una vita che trascenda assolutamente l’accidentalità dell’individuo e consenta all’anima di accedere alla realtà trascendente, ma tutto ciò non può essere fatto dall’individuo titanico impegnato a conservare il suo titanismo, occorre ordinarsi ad una autorità divina, a un vero Maestro, abbandonando ogni superbia per integrarsi secondo misura in un modello filosofico di vita, altrimenti dalla realtà si rimarrà sempre alieni, a causa della discorsività illusoria di tipo radicalmente ignorante.

Così come il Maestro è misura e modello della condotta di vita e dello stato da realizzare, Dio è misura eterna e invariabile del Maestro della misura e del modello dello stato d’essere da realizzare e, nella tradizione, è Maestro in diverso grado colui che ha realizzato una conformazione più o meno completa al Divino, fino a divenire semidivino o divino egli stesso, anche integralmente divino, in questo ultimo caso si tratta del Maestro perfetto che costituisce la misura integrale e il criterio assoluto di verità, oltre che il modello esemplare della vita filosofica. Il vero Maestro costituisce le condizioni istituzionali nelle quali può essere praticata la disciplina filosofica, nella comunione integrale di vita con esso, con la sua regola, con altri discepoli. Il dialogo operativo continuo fra il Maestro e il discepolo, all’interno di una struttura filosofico-religiosa, costituita in modo tale da ripetere la struttura e la dimensione del cosmo intero, consente di portare l’anima fino al punto della sua illuminazione:

“Questo però posso dire sul conto di tutti quelli che hanno scritto o scriveranno e che affermano di sapere le cose di cui mi do pensiero, sia per averle udite da me, sia per averle udite da altri, sia per averle scoperte da soli: non è possibile, a mio avviso, che essi abbiano capito alcunché di questo oggetto.

Su queste cose non c’è un mio scritto, né ci sarà mai.

In effetti, la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall’anima e da se stessa si alimenta”[2].

Così Platone sui limiti della scrittura e dei libri. Egli, come già il suo Maestro Socrate, invita ad andare oltre la parola per accedere alla visione diretta. La parola scritta deve essere traccia che, alla fine di un’ascesa conoscitiva, porta alla visione immediata della Verità, nessuna descrizione può sostituirsi alla visione intellettiva diretta del Vero, e la Verità, in sé, è indicibile, irriducibile al solo verbo espresso, sia orale che scritto.

Platone rimanda ininterrottamente all’insegnamento orale non scritto, mettendo in guardia chiunque dal racchiudere la sua opera negli angusti spazi degli scritti dialogici, che, per quanto siano degni di altissima considerazione, devono essere considerati in maniera limitata. Essi non sono in grado di comunicare al lettore le cose essenziali, sia dal punto di vista del metodo che del contenuto. Il limite si evidenzia poi ancor di più quando si tratta della cosa più essenziale, il Principio Primo, il Protos, per cui è necessario effettuare “… molti discorsi”, ossia bisogna ricondurre all’oralità e alla meditazione dialettica, occorre avere “una comunanza di vita”, ci si deve dedicare alla disciplina accademica e collegiale, la quale permette di trascendere i fini individuali del soggetto, affinché “improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa [l’illuminazione intellettuale, l’ellampsis) nasce dall’anima [è il passaggio del nous, dell’intelletto, dallo stato potenziale a quello attuale] e da se stessa si alimenta [indicazione dell’autarchia e dell’indelebilità dell’illuminazione intellettuale raggiunta]”.

La realizzazione della divina ellampsis, l’illuminazione intellettuale, era perseguita nell’antica Accademia e nel Liceo, la struttura di queste scuole deve essere conservata indipendentemente dalla presenza di edifici specifici, perché queste istituzioni riproducono la struttura dell’Essere Intelligibile, del Modello a cui ogni autentico amante di sophia deve adeguarsi. La partecipazione alla comunità intellettuale e spirituale è molto importante per il filosofo che aspira alla sophia, per farne parte occorre un atto di modestia, in modo che venga eliminata la presunzione per la quale l’individuo crede di potere fare da sé, muovendosi individualisticamente in un dominio in cui niente può provenire dallo stato titanico, dal soggetto afflitto dalla malia radicale.

 

[1] Platone, Simposio, 204a.

[2]  Platone, Lettera VII, 341b-c.

 

Tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. II

© Associazione Igea 2020
C.so Garibaldi, 120 – Forlì

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale, se non autorizzata in forma scritta dall’Associazione.