Risulta difficile concedere l’assenso a questioni che sono oscure per chi non ha dimestichezza con esse[1], chi non ha purificato la sua anima non può cogliere la natura della dialettica con l’intelligenza già in qualche modo separata dal sensibile. Allo stesso tempo non si può tralasciare l’interesse e l’importanza di conoscere “la scienza di tutte le scienze”, perciò è necessario approfondire, nei modi adeguati, la natura di ciò che costituisce la prassi medica, curativa e cultuale, fondamentale, che permette all’anima di conseguire il bene perfetto. È tempo dunque di passare alla canzone vera e propria, per andare fino in fondo e verificare quale sia la natura e la forza della dialettica e come essa conduca là dove l’anima effettivamente trova il vero riposo, la quiete dell’essere perfetto, il fine di ogni sua travagliosa sofferenza.

Socrate evidenzia la difficoltà di esporre quanto trascende la discorsività, e tutto ciò, per chi abbia operato al di là della discorsività, è certamente evidente. Il discorso che procede dalla conoscenza metafisica di tipo dialettico non può che essere esposto per via di mediazioni secondo l’immagine, perché è solo attraverso l’immagine che il soggetto che non ha esperienza di questa conoscenza può rappresentarsela. In ogni caso deve essere trattata adeguatamente alla disciplina che conduce all’Essere Vero, perché è l’unica cosa della quale ci si deve effettivamente occupare, quindi occorre fare di tutto per raggiungere il livello di comprensione che questa trattazione comporta. Si tratta di raggiungere la vera scienza, perché tutte le altre “scienze” sono solo pseudoscienze, nessuna di esse coglie, in maniera effettiva e sistematica, e quindi in un senso universalmente ed eternamente valido, l’essenza di ciascun essere individuale, per non dire dell’essenza stessa dell’Essere Universale.

Le discipline del più basso grado trattano delle opinioni degli uomini e dei loro desideri, ad un grado superiore si esaminano gli esseri che appartengono alla generazione e alla corruzione, perciò la conoscenza è relativa a ciò che si produce in natura, a livello universale, o per opera dell’uomo, a livello individuale, quindi si tratta di una conoscenza coinvolta nella nascita e nella morte, nel divenire transeunte. Il vero filosofo vuole procedere a conoscere ciò che veramente è, e quindi vuole applicarsi alle discipline che conformano alla misura dell’essere, le scienze matematiche vanno in questa direzione, ma in modo ancora insufficiente rispetto a ciò che si ottiene con la dialettica. Ciò che si consegue con la più alta scienza matematica è ancora cosa relativa ad un soggetto che, rispetto ai veri sapienti, coloro che sono “svegli”, è “sonnambulo”, quindi rimane limitato all’utilizzo di nozioni senza procedere a radicarle nei loro principi metafisici essenziali e quindi lascia indimostrati i fondamenti della sua scienza e li ancora all’illusione inerente alle rappresentazioni immaginali formali delle Idee, e così non trascende questa dimensione.

Tutti coloro i quali non hanno praticato la dialettica non hanno realizzato i risultati a cui essa conduce, essi assumono come evidenti, quando non lo sono, principi di partenza che a loro sono in realtà sconosciuti, perciò ogni loro discorso poggia su questa ignoranza di base, così come le conclusioni che ne derivano, intrecciate coi principi non evidenti. Tutta l’attività dei sonnambuli, di coloro che non hanno raggiunto la veglia del sapiente che conosce il Bene, si svolge nel reticolo dell’ignoranza, sebbene i soggetti siano convinti di poggiare sull’evidenza, in realtà si tratta di un’artificiosa convenzione, un’illusoria presunzione di fondare su elementi certi che però non attengono alla vera scienza, dai quali non possono scaturire dimostrazioni scientifiche relative al reale. È perciò evidente che le cosiddette technai, le arti poietiche o le discipline empiriche, che riguardano le opinioni e i desideri degli uomini soggetti ai sensi e sono orientate alla produzione di cose materiali esteriori e alla loro cura, non hanno niente a che vedere con la scienza, né coi suoi fondamenti. Le discipline matematiche di carattere iniziatico e religioso, che trascendono il dominio inferiore dell’esperienza sensibile, si accostano maggiormente all’essere vero e proprio, ma rimangono in qualche modo limitate e relegate alla dimensione del sogno, dello stato intermedio che si pone fra l’irrealtà, il sonno profondo, e la vera realtà, lo stato di veglia spirituale-intellettuale. Credere che sia scienza l’esperienza “matematica” del reale è solo una convenzione artificiosa, un’abitudine impropria a cui gli uomini si sono assuefatti, risulta una credenza, perché quanto la matematica tratta, come ogni conoscenza razionale formale, non ha a che vedere con la realtà in se stessa, e dunque con la vera scienza, la pura episteme. Perciò occorre sbarazzarsi di ogni presunzione conoscitiva e delle conseguenze che derivano dall’arrestare l’anima ad una dimensione inferiore rispetto a quella dell’essere vero, una dimensione che è correlata con il divenire e perciò con il non essere[2]. Ma bisogna guardarsi anche dal credere di avere già visto o di avere già capito senza avere portato fino in fondo il procedimento dialettico:

«Però, Socrate – disse Parmenide – se qualcuno non vorrà ammettere che esistano le Idee delle realtà, a causa di tutte le difficoltà già dette e di altre ancora, e non vorrà porre un’Idea per ogni singola realtà, non avrà un punto di riferimento per il suo pensiero, in quanto non ammetterà un’Idea di ciascuna realtà che esistono, che sia sempre la stessa per ciascuna realtà: così distruggerà la forza della dialettica. Ma di un tale problema mi sembra che tu abbia già avuto particolare sentore».

«Dici il vero» riconobbe.

«Che cosa farai dunque della filosofia? Dove ti volgerai, se non hai una soluzione per questi problemi?».

«Non mi sembra di vederne alcuna all’orizzonte».

«Infatti, Socrate – disse –, tu hai tentato di definire il bello, il giusto, il buono e ogni singola Idea troppo presto, prima di esserti esercitato adeguatamente. Infatti, l’ho capito l’altro giorno, ascoltandoti qui mentre discutevi con il nostro Aristotele. Bello e divino, sappilo, è lo slancio che ti spinge verso gli argomenti. Ma, visto che sei giovane, esercitati, impegnandoti a fondo in quell’attività che può sembrare inutile e che i più considerano puro gioco di parole, altrimenti la verità ti sfuggirà»[3].

E Zenone conferma:

E infatti la gente ignora che, senza questa esplorazione di tutte le possibilità e in tutti i sensi, è impossibile che la mente, anche se incontra la verità, la conosca. Io dunque, Parmenide, ti prego insieme a Socrate perché anch’io possa ascoltarti dopo tanto tempo»[4].

Per quanto la conoscenza vera abbia un carattere intuitivo, istantaneo e immediato, l’avvicinamento a questa conoscenza deve essere sempre graduale, ordinato e sistematico. Ogni forzatura del processo di ascesi conoscitiva, con elevazioni inopportune e improvvise, che portano a sbalzi di prospettiva epistemica, sono deleteri. Se qualcuno trascina in modo non misurato il prigioniero fuori dalla caverna questo ha delle reazioni di irritazione, soffre, e giunto alla luce troppo presto, senza occhi preparati, viene solo abbagliato senza capire nulla[5]. Il passaggio dalla dimensione delle apparenze e dell’illusione a quella della realtà e della verità richiede una lunga purificazione, un adeguamento progressivo e graduale dell’anima all’essere, un suo distoglimento dalla discorsività ingannevole per fare l’esperienza folgorante del Divino, un risultato che, già al tempo di Platone, molto difficilmente poteva avvenire prima dei cinquanta anni di vita, e dopo aver svolto in modo regolare la paideia. Si ricordi poi che vi è una grande differenza fra l’accesso temporaneo e fugace ad una condizione di visione e l’acquisizione di una visione come stato permanente dell’essere. Il prigioniero deve prima oggettivare le ombre, per passare poi a conoscere le immagini e successivamente gli oggetti che proiettano le immagini e le ombre, infine potrà cogliere la Luce che rende possibile tutto il processo, dunque si tenga ben presente che il passare dal buio alla luce troppo rapidamente genererà molti problemi e danni nell’anima[6]. L’avvicinamento alla vera conoscenza deve avvenire per tappe e fasi graduali e sistematiche, non in modo accelerato o improvviso. Solo procedendo con misura è possibile realizzare stabilmente un certo stato conoscitivo e dunque acquisire senza incertezze un sapere legittimamente fondato, del quale è possibile dare dimostrazione e rendere ragione. Proprio la gradualità dell’ascesi dialettica, e l’insistenza metodica sui diversi piani della conoscenza, rendono il sapere filosofico superiore ad ogni altra forma di conoscenza, solo il filosofo, una volta che ha conseguito la conoscenza come stato permanente dell’essere, sa rendere ragione, per scienza reale acquisita stabilmente, di se stesso e di tutti i piani dell’essere conosciuti attraverso la disciplina dialettica, fino alla scienza suprema dell’Essere Totale. La prassi filosofica apollinea trascende tutte le vie che consentono di accedere alla conoscenza divina solo in modo subitaneo e impermanente, chi raggiunge questa fugace esperienza non ha la possibilità di rendere pienamente ragione di come l’abbia conseguita e, specialmente, di quale sia la natura della conoscenza improvvisa e fugace così raggiunta. La conoscenza conseguita per via dialettica risulta essere la più completa e la più stabile, oltreché la più misurata e la più attiva.

 

 

[1]  Platone, Repubblica, VII, 532d-533c.

[2]  Ibidem, VII, 533c-534b.

[3]  Platone, Parmenide, 135b-d.

[4]  Ibidem, 136e.

[5]  Platone, Repubblica, VII, 515e-516a.

[6]  Ibidem, VII, 516a-b.

 

 

(tratto da Viola, L.M.A., Psyches Therapeia, vol. II)

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