
Nel Timeo[1] Platone dice che la malattia essenziale dell’anima, la sua patologia primaria, si definisce come mancanza di attività del nous, della mens. La psicopatologia fondamentalmente è dunque la demenza di origine metafisica, la anoia, ἄνοια, la quale si esprime in due modi: come ignoranza, ovvero agnosia, in particolare come amathia, ἀμαθία, e come mania, μανία, l’alienazione da sé. Fra le due, l’ignoranza, l’amathia, è la più grave, da essa procedono tutti i mali che affliggono l’anima soggetta alla natura contraria, al corpo, sia nelle sue operazioni specifiche, sia nelle operazioni che essa svolge in relazione al corpo. L’ignoranza letale è causata dall’incorporazione e si conserva fino a quando l’anima rimane soggetta alla corporeità.
A sua volta, quando un corpo grande e superiore all’anima si trovi connaturato con una intelligenza piccola e debole, dal momento che per natura ci sono due desideri nell’uomo, quello della nutrizione a causa del corpo e quello della saggezza a causa di ciò che c’è in noi di più divino, si verifica questo: i movimenti della parte più forte prendono il sopravvento facendo crescere la parte del corpo, e invece rendono ottusa, inadatta ad apprendere e senza memoria la parte dell’anima, e producono in essa la malattia più grande, vale dire l’ignoranza[2].
L’anima incorporata giace in uno stato di sonno-morte e patisce la broteia, privata dell’attualità dell’attività noetica, della noesis, giace nella pianura dell’oblio, della dissomiglianza, della sensazione ed è soggetta all’opinione sensibile. Il soggetto psichico brotos, letteralmente “ubriaco di sensazione”, può essere paragonato ad un uomo che si trova rinchiuso in una caverna, incatenato con il viso volto alla parete di fondo, le sue gambe e il suo collo sono rigidi, perciò egli può guardare solo davanti a sé, quindi è impossibilitato a vedere la luce che viene dal fuoco che arde alle sue spalle, che illumina oggetti in movimento che si trovano dietro di lui[3]. Il prigioniero può solo vedere le ombre degli oggetti proiettate sullo sfondo della caverna e udire le voci degli uomini che portano gli oggetti alle sue spalle, che si riverberano nella parete di fondo come una eco. Di questa situazione l’anima è incosciente, perciò ritiene vere le ombre che vede e i suoni riverberati che ascolta[4]. Non vi è anima umana che non si trovi in questa condizione fin dalla nascita, a meno che l’anima non goda di un’elezione divina o semidivina e sia venuta in questo mondo di ombre e apparenze per svolgere una funzione provvidenziale specifica, conservando il suo intelletto in atto. Le anime che posseggono una particolare fortuna si destano presto dall’ottundimento, dall’oblio dovuto all’incorporazione, le altre anime, invece, un numero di gran lunga maggiore, patiscono più o meno tristemente l’oblio penoso del corpo, per tutta la loro esistenza, talora questa pena si protrae per molte altre esistenze. Ciò che viene stabilito con la costituzione dell’uomo vivente non è modificabile durante il corso della singola esistenza, perciò l’anima patisce in buona misura l’associazione col corpo, quindi fino a quando non si libera dalla soggezione al corpo non è libera nel suo atto conoscitivo. Messa in ceppi, ridotta in catene, e sopraffatta dalla natura titanica, subisce la anoia, la malattia essenziale dell’anima, la psicopatologia fondamentale dalla quale derivano tutti i mali psichici e somatici[5].
Prima della sua catabasi l’anima si trova nello stato iperuranio ed è in atto secondo il nous, perciò esercita la pura noesis, da cui deriva sophia. Nella sophia si risolve la virtù essenziale dell’anima che corrisponde alla sua hyghieia–salvs, per merito di sophia l’anima conosce se stessa, la Natura Divina e l’intera Realtà[6], questa conoscenza equivale alla piena attuazione della sua natura, perciò del suo bene, quando l’anima lo consegue ottiene anche la fruizione della perfetta beatitudine. Quando invece procede nella catabasi, l’anima si costituisce secondo la dianoia, perciò la sua attività si limita alla discorsività razionale riflessiva e separata; quando infine viene incorporata, il suo atto essenziale viene ancor più degradato, perciò l’anima si dispiega nella sola attività secondo il senso e si limita all’attività sensibile. La costituzione dianoetica dell’anima e la sua incorporazione producono due gradi di malia-malattia, a causa dei quali subentra una sofferenza profonda nell’essere dell’anima stessa. Quando l’anima non conosce se stessa, né il Divino, nell’immediatezza della noesis, soffre l’ignoranza ed è in diversi gradi malata. Se il nous non è in atto nella sua purità separata da sensazione e discorsività, nell’anima vi è anoia, fino a quando vi è anoia il male-malia affligge l’anima e perciò nessuna sofferenza dell’uomo può essere risolta, quindi occorre curare innanzi e soprattutto l’anima, altrimenti non si potrà curare in alcun modo l’uomo[7]. Se nell’anima è in atto il puro nous, non è presente alcuna attività dianoetica, diacritica e discorsiva, perciò nel soggetto non si costituisce il senso dell’esistenza, dell’individuazione egoica distintiva, del divenire temporale. Quando l’anima svolge la sua attività intellettuale sovrarazionale, la noesis, intuisce direttamente l’Essere Divino, la cui presenza si costituisce immediatamente nell’essenza dell’anima e le dà una pienezza ontologica beatifica, nella quale è assente ogni privazione-pena. Nella quiete divina, l’anima è satura di Dio e fruisce una sazietà spirituale e una beatitudine illimitata, che non dipendono da accidenti e divenire. A seguito della catabasi, con la perdita dell’attività noetica originaria si producono la coscienza riflessa e la rappresentazione immaginale, alle quali si associa sempre un’intrinseca pena ontologica, che rivela la perdita della fruizione dell’Essere Divino, da cui deriva la sofferenza psichica di carattere esistenziale, che si traduce in una moltitudine di problemi morali e corporali. La catabasi che costituisce la psyche in quanto principio di mediazione dell’intellezione determina anche l’ego psichico riflesso, con il suo senso di isolamento, confinato alle operazioni razionali discorsive e perciò soggetto alla loro insufficienza ontologica. L’anima che discende nel corpo, prima di attingere dal fiume dell’oblio ha ancora memoria di sé, della sua natura spirituale, immateriale e immortale, della sua origine divina e noetica, ma, quando attinge all’acqua del fiume Amelete, perde la memoria celeste e subentra la broteia, il sonno-morte psicospirituale, l’ebbrezza-sopore derivata dalla mescolanza con la carne. Dalla broteia deriva anche l’oscura pena somatica, il senso di fragilità, di inconsistenza, questa pena è più accentuata della pena psichica, perché l’anima incorporata consiste solo sulle sensazioni corporee, quindi ella non fonda più sulla sua vera identità, ma si assimila al corpo e si identifica erroneamente ad esso, perciò si appoggia al corpo per surrogare in maniera illusoria la consistenza ontologica che essa aveva in Dio prima della sua catabasi. Dalla vita corporale viene la memoria sensibile, che produce l’ombra fantasmatica della vita effimera del singolo ente carnale, dipendente dal divenire corporale, dagli accidenti che interessano il corpo. Prona alla corruttibilità della materia e sottomessa alla morte che interessa tutte le cose corporee, l’anima langue nella tristitia, nel taedivm vitae, incosciente dell’oblio radicale a cui è sottoposta, sperimenta ottusamente la sua inconsistenza, che si evidenzia nella dipendenza dal desiderio, nella paura, nel senso illusorio di esistere nel tempo. Dalla pienezza della contemplazione divina originaria l’anima soggetta a broteia passa all’oscura e confusa sensazione, la beatitudine originaria rimane in essa come una eco, un’ombra nella sua memoria ottusa, perciò essa vaga a tentoni, ricercando qualcosa che non sa spiegarsi cosa sia, qualcosa che il suo essere vuota di Dio spinge a cercare in maniera indeterminata e perciò l’anima continuamente erra ed è errante. La spinta confusa e necessitata all’essere è senza posa, ma è anche disperata se l’azione non ha un fine certo, se non ha possibilità di riuscita. La condizione della salute originaria non può essere recuperata se l’anima non si dispone adeguatamente a philosophia.
La tristitia è il fondo dell’anima incorporata, uno stato di pena, di afflizione ontologica dovuta alla privazione della fruizione originaria dell’Essere Divino e della beatitudine che a tale fruizione è associata. La tristitia si manifesta nelle varie forme del taedivm vivere, nella “pena di esistere”, che produce continua inquietudine, mancanza di pace, assenza di beatitudine immutabile e di felicità incorruttibile. L’anima che patisce tristitia e taedivm vitae si agita invano nella ricerca di palliativi illusori della sua sofferenza, perciò ordina la sua azione per ricercare piaceri effimeri mortali, derivati dalle sensazioni che sembrano “placare” temporaneamente il dolore di esistere, ma la sete di Dio non si estingue con l’esperienza dei vani fenomeni, la spinta che ricerca l’Acqua di Vita non si quieta, anzi si accentua se la ricerca è effettuata secondo concupiscenza. Il problema originario dell’anima è di carattere ontologico e gnoseologico, ed è costituito dalla anoia, che determina dapprima l’illusorio senso dell’ego psichico distinto e poi anche il senso dell’ego somatico. Dunque il problema dell’anima non è mai morale, non è il peccato della volontà, la “ribellione” o “l’opposizione a Dio”, perché questi sono effetti secondari dovuti alla anoia, alla demenza-ignoranza originaria e riguardano l’inviluppo catabasico inferiore. Quando l’anima si connette al corpo si determina la facoltà della epithymia, l’appetito sensibile, il quale nel mito biblico è rappresentato dalla serpe “tentatrice” che si rivolge alla Eva, l’anima immaginale vivente, che si trova in prossimità del corpo. Quando l’anima incarnata viene sopraffatta dal desiderio carnale, dalla serpe-Satana, essa trascina con sé anche il principio intellettivo, l’Adamo, che è immanente in essa, e patisce le conseguenze del “peccato”. In ogni caso, prima del peccato morale viene la anoia, nel Genesi descritta come il “sonno” nel quale Dio pone Adamo per estrarre dalla sua costola Eva, la donna-anima. Dopo la costituzione di Eva si determina la polarità intelletto-anima, e dunque la possibilità per l’anima di obbedire a Dio, accordandosi all’intelletto o di disobbedire a Dio, per seguire la serpe-Satana attraverso la soddisfazione del desiderio carnale. Prima di cedere all’ascendente della serpe-epythimia, l’anima gode della libertà di indeterminazione, una libertà di carattere psichico, ad essa è concesso di accordarsi al bene e alla giustizia divina o di volgersi al male e all’ingiustizia. Nel caso si sottometta al corpo e al desiderio corporale, l’anima perde se stessa e la retta relazione a Dio, perciò va contro se stessa e, allo stesso tempo, contro Dio. L’anoia che determina l’anima riflessa è all’origine di ogni degrado, una volta prodotta, l’anima può permanere completamente conformata al suo principio, all’intelletto, aderendo ad esso con tutta se stessa preservando la somiglianza divina, oppure, a partire dalla polarizzazione alterante, l’anima può essere soggetta all’inviluppo della catabasi, perciò si distoglie dall’intelligenza e si rivolge alla sensazione corporea, fino a che viene assorbita e dominata completamente da essa. In tal caso l’anima abbandona ogni contegno, perciò si abbandona alla pena del desiderio corporale e all’ottundimento finale della sensazione carnale. In questo modo l’anima “…subisce il male più grande che si possa immaginare: subisce questo male, e non se ne rende conto”[8].
Il male peggiore è costituito dalla soggezione alla sensazione di piacere e dolore che stordisce l’anima e le fa credere che il corpo sia la realtà più vera:
«Qual è, Socrate, questo male?» disse Cebete. «È che l’anima dell’uomo, provando un forte piacere o un forte dolore a causa di qualche cosa, è spinta per questo a credere che ciò che le fa provare queste sue affezioni sia la cosa più evidente e più vera, mentre non è così. Ora, questo ci accade specialmente con le cose visibili. O no?» «Certamente»[9].
L’esperienza del piacere/dolore inchioda l’anima al corpo, annullando in essa ogni tendenza intellettiva. Dominata dalle passioni, ogni possibilità di recupero della sua condizione di salute e beatitudine originaria è perduta:
…E non è forse per queste sue affezioni che l’anima è soprattutto legata al corpo?» «E perché?» «Perché ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e fissa l’anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero. E da questo avere le stesse opinioni del corpo e da questo suo godere degli stessi godimenti del corpo, io penso, è costretta anche ad acquistare gli stessi modi e le stesse tendenze del corpo, e quindi a diventare tale da non poter giungere pura all’Ade, ma uscirà dal corpo tutta piena di desiderio del corpo, cosicché cadrà subito nuovamente in un altro corpo, e, come se fosse semenza, ivi germoglierà, e, per questo, non potrà mai avere in sorte la partecipazione di ciò che è divino, puro, uniforme». «È verissimo, o Socrate», disse Cebete.[10]
Non vi è anima che non sia soggetta alla sensazione di piacere/dolore e, più in generale, alla natura titanica, prima di dare avvio alla sua cura, alla psyches therapeia. Perciò non si può considerare “sana” l’anima che patisce la anoia, che manca di noesis, che ignora radicalmente se stessa e il Divino e, allo stesso tempo, ignora anche di ignorare e perciò patisce anche la duplice ignoranza. Non è sana l’anima che soffre la pena di esistere e la brama di esistenza sensibile, non è sana l’anima che prova la paura della morte, la paura del dolore, non è sana l’anima che soggiace al desiderio sensibile di piacere. Ma non è sana nemmeno l’anima che non ha un’identità spirituale precisa, che non svolge un’esistenza religiosa, non è sana l’anima che non pratica la cura di sé, che non cerca la salute-sapienza. Non è sano l’uomo che è fatto di sensazione, di opinione, di errore, non è sano l’uomo inquieto, bramoso, lussurioso. Perciò nessuno può essere condotto alla salute da psicoterapeuti o da consulenti filosofici profani che presentino in se stessi questi mali e propongano una pseudocura dell’anima a partire dalla loro sofferenza della duplice ignoranza.
La salute psichica è un’illusione per l’anima soggetta a broteia, priva di qualsiasi tendenza all’ascesi filosofica efficace, quest’anima deve affrontare la sua patologia originaria, non può eluderla, pena la continua e disperata, quanto vana, sofferenza. La via della psicoterapia filosofica integrale è stata definita dal Dio Apollo in Pitagora e trasmessa a Platone, poi è stata consegnata da tutti i Maestri della tradizione fino ad oggi. La cura dell’anima risolve la deviazione morale, ma specialmente rimuove la anoia originale, ma questa cura non può avere inizio se l’anima non compie una vera e completa conversione, una metanoia[11], una disposizione indispensabile per dar luogo all’anabasi che ripristina la noesis e perciò costituisce la salute-sapienza dell’anima.
Il soggetto psichico deve prendere atto che si trova incatenato nel fondo della caverna e che la sua visione delle cose è completamente falsata. Egli coglie solo ombre ed echi e fino a quando non sarà convinto della sua soggezione alla malia della sensazione, non determinerà la sua volontà nel senso della conversione alla realtà intelligibile. Solo l’univoca volontà convertiva può dapprima spezzare le catene che tengono vincolata l’anima all’elemento titanico e poi può girarla letteralmente, per riorientare ogni sua facoltà all’intellezione, al fine di raggiungere nuovamente lo stato originale perduto della visione iperurania beatifica dell’Essere Divino. La salita verso il Sole Intelligibile che sta fuori dalla caverna è “aspra ed erta” e non si può avviare se prima non si spezzano le catene che legano l’anima al corpo, catene costituite dalla soggezione alla sensazione, al desiderio e all’opinione sensibile, elementi caratteristici dell’anima stante nella pianura infernale dell’oblio. Perciò, nell’ordine, sono necessari: la perfetta presa di coscienza dello stato di soggezione all’ignoranza-malia; l’univoca determinazione della volontà a costituire la liberazione dalla natura titanica; la disciplina convertiva che mette in condizione l’anima di spezzare le catene e di attuare l’anabasi efficace. Se però l’anima non ottiene la completa impassibilità, attraverso la perfetta separazione dal corpo, non recide completamente e definitivamente le catene che la vincolano alla morte e alla corruzione. Le tre condizioni descritte sono preliminari, ma hanno un valore fondamentale, solo quando sono acquisite l’anima può effettivamente dare inizio alla disciplina dell’anabasi, attraverso l’utilizzo delle sue ali che le consentono di salire al Cielo, fino a raggiungere la Pianura della Verità. Una volta rimesse le ali l’anima è nuovamente in atto secondo la sua natura.
Solo il Dio sa chi ha un destino così favorevole, le anime che dovranno soffrire la loro pena non raggiungeranno il punto dell’ascesa anabasica, fuggiranno persino colui che le esorta a liberarsi dalla natura titanica e a curare dovutamente la loro sofferenza, altre ancora, quelle soggette al destino peggiore, si spingeranno fino a maledire i loro benefattori. Le anime prave, indifferenti e deboli, richiedono un’attenzione particolare da parte del filosofo medico, esse già patiscono la pena amara dell’oblio, della morte, delle tenebre inferiori, le loro colpe gravano cupe su di loro, come arpie, sono anime che per lo più possono ottenere solo un sollievo temporaneo dalla sofferenza nella loro esistenza e anche in molte altre.
L’anima viene dunque ottusa dall’assimilazione alla corporeità, perciò può essere restituita alla sua attività intellettuale solo quando si libera dalla commistione col corpo, in tal modo “ragiona nel modo migliore”, perché nessuno dei sensi la turba più. Non essendo più coinvolta nel piacere e nel dolore, l’anima può raccogliersi il più possibile sola in se stessa, sperimentando l’isolamento dal contatto col corpo e dalla comunanza con esso, nella misura del possibile[12].
L’anima può dunque esercitare il suo atto proprio solo quando è disposta seconda la sua natura intelligibile, perciò deve restare in se sola e per sé sola e così svolgere la sua attività secondo ciò che è puro, eterno, immortale e immutabile. Se l’anima rimane sempre con “quello”, l’Essere, ogni volta che le è possibile, allora in questo modo “… cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato dell’anima si chiama intelligenza [nous]”[13]. L’anima, che è in sommo grado affine al Divino, all’immortale, all’intelligibile, all’indissolubile, a ciò che è sempre uguale a sé medesimo, non deve in alcun modo accogliere la natura contraria e sottomettersi a questa, perché il corpo è in sommo grado simile a ciò che è titanico, mortale, multiforme, inintelligibile e dissolubile, perciò non è mai identico a sé medesimo[14].
L’anima che vuole recuperare la sua attività noetica pura, l’esercizio dell’intellettualità contemplante direttamente l’Essere Divino, deve purificarsi e separarsi interamente dal corpo, nel distaccarsi da esso non deve trascinarsi dietro niente del corpo, in questo modo sarà decontaminata dall’immondizia del corpo. Se l’anima compie qualche cosa in senso contrario, andrà incontro a tutto ciò che è propriamente l’opposto della sua natura e si sottometterà a ciò che le è inferiore, perciò si troverà nella condizione di miseria e di pena che spetta alle anime che non procedono secondo il loro essere proprio, che non si dedicano alla melete thanatou, μελέτη θανάτου, alla epimeleia heautou, in funzione della psyches therapeia. Il corpo è l’elemento titanico contrario all’elemento divino, fino a quando l’anima è soggetta al corpo non potrà ricostituire la noesis originale e riacquisire la sophia beatifica.
Il Dio Apollo si è reso presente in Pitagora, il quale ha aperto la via filosofica che rende possibile la rimozione di ciò che si è costituito con l’incarnazione, in modo particolare il Dio ha assegnato una missione più esteriore a Socrate, il quale si è rivolto agli uomini per esortarli alla psyches therapeia, mediante la quale essi rimuovono il teras che si è prodotto nell’anima accogliendo l’elemento titanico e assoggettandosi ad esso. Nel Menone, Socrate dice che senza la virtù-scienza l’anima non può essere risanata, senza la filosofia il teras che l’affligge e gli produce pena e sofferenza non può essere rimosso. Se non interviene l’opera risanatrice e salvifica della filosofia, la anoia non può essere sanata e il nous non può essere ricostituito in atto nell’anima. La facoltà razionale, il logos, privato del suo appoggio sul nous, patisce un grave oblio, perciò vaga nell’erranza della sensazione, le sue ali si sono atrofizzate dopo che ha attinto alle acque dell’oblio, perciò staziona sulla terra e inclina al male[15].
Nel patire il corpo l’anima presenta un’imperfezione della disposizione della sua natura, soggetta all’errore, al peccato, al dolore, non può in alcun modo essere disposta secondo il bene. Il corpo è dunque un ostacolo che impedisce la libera intellezione e perciò è un elemento contrario all’esercizio della filosofia[16]. Il compito dell’anima sarà quello di separarsi il più possibile dal corpo, affinché possa essere restaurata la condizione precedente all’incorporazione. Ogni anima dovrà svolgere la sua vita in questa direzione, affinché gli Dei le consentano di liberarsi dalla stoltezza della vita corporale.
L’anima che subisce l’ascendente del corpo e lo cura al posto di se stessa, amandolo fino a perdersi in esso, subisce una fascinazione letale e malefica, che la coinvolge nell’appetizione sensibile, nell’attaccamento alla vita carnale, nel desiderio di conservazione dell’esistenza transeunte. A causa dell’ignoranza di sé e di Dio, l’anima patisce l’errore teoretico, dal quale si produce l’errore morale, ciò è dovuto al fatto che la malia che patisce l’elemento intelligente si trasferisce all’elemento volitivo. Ma l’anima che ha subito l’associazione al corpo, a seconda dell’oblio attinto, ha tutte le sue facoltà rivolte al corpo e rapite dalla sensazione. Coinvolta negli automatismi della natura animale, l’anima si lascia prendere completamente dal desiderio del corpo, dai piaceri che questo produce, dalle paure che questo infonde, dalle passioni che da esso riceve.
Chi si lascia prendere oltre misura dai piaceri o dai timori o dai dolori o dalle passioni non riceve da essi un male di quelli che si potrebbe credere, come se si ammalasse, o consumasse parte delle sue sostanze per soddisfare le sue passioni, ma subisce il male più grande che si possa immaginare: subisce questo male, e non se ne rende conto[17].
Quando l’anima ignora il suo essere e il suo fine, si isola nell’illusione della sua consistenza ontologica autonoma e da questa illusione deriva la presunzione dell’esercizio della ragione e della volontà indipendenti dal Dio che dà consistenza, essere e atto, all’anima. La genesi dell’illusoria volontà individuale, affermativa di un’identità illusoria, è segno della soggezione alla ignoranza-malia; valendo di per sé, orgogliosa della falsa autodeterminazione, autoexousia, crea la più grande distinzione separativa, apostasis, rispetto al Padre Divino. L’anima che è soggetta all’autoaffermazione distintiva non ha una sua volizione libera, nonostante l’illusione in senso contrario, la volontà è libera solo quando coincide con quella di Dio, una coincidenza di cui l’anima fruiva prima di apparire distinta e separata da Dio, ma l’anima illusa crede di possedere una libera volontà di determinazione indipendente da Dio.
Ne deriva che, a causa della sua distinzione dall’intelletto, l’atto dell’anima è sempre distinto da Dio, perciò l’anima conosce l’indeterminazione della volontà e dell’arbitrio, a causa della quale appare posta di fronte ad una scelta polare, in virtù della quale può orientarsi a Dio o a sé e alla sua convinzione di essere un ente separato, illusoriamente indipendente da Dio. La scelta nel senso di Dio ricompone l’originale unità ed è un bene per l’anima, la scelta in senso contrario è un male. In particolare, l’inclinazione verso il corpo è ciò che vi è di più contrario all’inclinazione verso Dio, perciò è la prima cosa che va risolta e convertita, quindi tutta l’anima deve distogliersi dall’orgogliosa convinzione di sé, per restituirsi alla sua salute originale.
Ogni anima assoggettata all’identità titanica è completamente assorbita nella sensazione corporea e subisce il più grande male, perché confonde il sensibile con la realtà, si attacca ad esso e si priva di ogni possibilità di realizzare il suo vero bene, la visione dell’Essere Divino e la fruizione della beatitudine incorruttibile che ne deriva.
Quando l’anima razionale si distingue dall’attività dell’intelletto e dalla relativa visione, il nutrimento della sua parte più nobile, l’attingimento del cibo che fornisce energia alla sua ala ascendente, si indebolisce, ma quando l’anima si incarna e va soggetta all’oblio, questa ala non viene più nutrita divinamente, al contrario, viene appesantita dal fango della corporeità, dall’oscurità della sensazione carnale. Quindi, per l’anima, l’intellezione metafisica è “ambrosia”, nutrimento di immortalità, mentre la sensazione corporea è broteia, nutrimento di morte. Se la mescolanza con la sensazione non viene risolta, l’ala dell’anima non può essere alleggerita, né può essere nuovamente alimentata dall’intelletto e posta in atto, quindi l’anima non può liberarsi dalla condizione mortale patita. Ogni tipo di concupiscenza della sensazione e dell’esistenza sensibile deve essere vinta, ogni lascivia sensuale deve essere superata, altrimenti l’anima è completamente perduta, le più diverse sofferenze la seguiranno perpetuamente.
Quando l’anima si associa al corpo germinano le facoltà irrazionali, in particolare l’epithymia, la facoltà concupiscibile, per la quale l’anima concupisce il corpo e allo stesso tempo tutto ciò che è corporeo. Questa inclinazione al corporeo è nettamente distinta, persino opposta, all’appetito intelligibile della ragione e cospira contro di essa, perciò la concupiscenza trascina verso il basso l’anima e alimenta il suo cavallo nero, che acquista forza nella misura in cui si lascia prosperare il desiderio irrazionale per il corpo e la vita sensibile piacevole. La concupiscenza carnale spinge l’anima alla ricerca continua e sempre più esasperata del piacere, inoltre assimila e confonde completamente l’anima con la corporeità. Ma l’impulso appetitivo rivolto al piacere, al mantenimento edonistico dell’esistenza sensibile, così come la repulsione per il dolore e la morte corporale, schiacciano l’anima, la sottomettono al corpo e la sviano dal suo bene, pervertendone l’attività secondo la sua natura. Il desiderio concupiscente è radicalmente irrazionale, esso tende alla illimitatezza, all’indeterminazione, alla dismisura, al contrario di ciò a cui tende il principio intelligente dell’anima e l’attività misurante del nous. Fino a quando l’anima rimane sottomessa al concupire e attraverso il concupire dispiega la sua vita nella polarità vana del piacere e del dolore, resterà coinvolta nel circolo della dissomiglianza e della illimitatezza e giacerà nella dimensione contraria al suo essere incorruttibile ed eterno. Il piacere e il dolore inchiodano l’anima al corpo, la rendono corporea, il suo orizzonte visuale si riduce alla sola illusione della sostanzialità della corporeità. L’anima così soggetta alla corporeità si deforma completamente, quando lascerà il corpo conserverà una proclivitas corporale, perciò dovrà patire la purificazione infernale, poi procederà nel circolo trasmigratorio senza sosta, fino al momento in cui gli Dei non gli rendono possibile la sua liberazione.
[Tratto da Viola, L.M.A., Psyches Therapeia]
[1] Platone, Timeo, 86 b.
[2] Platone, Timeo, 88 a.
[3] Platone, Repubblica, 514 a.
[4] Ibidem, 515 c.
[5] Platone, Carmide, 156e- 157a; Timeo, 86b.
[6] Platone, Alcibiade Maggiore, 133b-c.
[7] Platone, Carmide, 156e.
[8] Platone, Fedone, 85c
[9] Platone, Fedone, 83c.
[10] Platone, Fedone, 83d-e
[11] Platone, Repubblica, 515c-516a
[12] Platone, Fedone, 65 c-d.
[13] Ibidem, 79 d.
[14] Ibidem, 80 b.
[15] Platone, Fedro, 248 c-d.
[16] Platone, Fedone, 65 b.
[17] Platone, Fedone, 83 b-c.
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