L’insegnamento platonico che riguardava la natura dei principi supremi, archai, delle cause ultime, aitiai, e degli elementi primi, stoicheia, era esposta nell’Accademia in modo orale, perciò riguardava l’esoterismo e si rivolgeva solo ai discepoli interni. L’insegnamento supremo non veniva fissato in scritti dialogici articolati, i quali riguardavano fondamentalmente l’exoterismo, perciò nei dialoghi si fa cenno ai principi supremi solo in modo limitato e spesso solo allusivo. Le dottrine non scritte rivolte al gruppo elitario dei discepoli più dotati, e dunque all’élite dell’Accademia, quale istituto cultuale dedicato al culto di Apollo e delle Muse, riguardavano, innanzitutto, il Principio Supremo, l’Uno, to hen, e la Diade indefinita del Grande e del Piccolo, aoristos duas tou megalou kai tou mikrou, e perciò si ponevano in continuità con l’insegnamento esoterico pitagorico, che atteneva alla Monas, e quindi alla Monade, e alla Duas, alla Diade, o anche al Peras e all’Apeiron.

In questo nostro passaggio ci limitiamo esclusivamente a dare una descrizione sintetica, e necessariamente imperfetta, di ciò che costituisce il Principio Supremo, e di ciò che è presente in esso o, se si vuole, di ciò che da esso appare procedere. Resta evidente che, come ben sapeva e insegnava Platone, vi è il problema dell’impredicabilità diretta dei fondamenti incausati della totalità del reale, in quanto essi, di fatto, non sono soggetti alla determinazione, in particolare il Principio Supremo, e quindi non sono oggettivabili o predicabili se non in maniera paradossale e allusiva.

Secondo Aristotele, che fu il primo a parlare delle dottrine orali esoteriche che venivano esposte nell’intimo dell’Accademia, Platone considerava l’Uno e la Diade come i generi supremi dell’Essere, quelli che trascendono anche il genere dell’Essenza e tutto ciò che ha relazione con essa. In particolare nell’Uno venivano concentrati tutti gli elementi di eccellenza, perfezione, integralità, totalità, pienezza, ecc., che lo individuavano in qualche modo come il “Bene Supremo”. Quando l’Uno viene indicato con il termine agathos, si vuole raccogliere nell’Uno tutto ciò che riguarda l’eccellenza, l’eminenza, la grandiosità, la sovranità, la nobiltà, la virtuosità, la perfezione dell’attività. Risulta implicito che nell’Uno è presente la realtà dell’essere nella sua integralità, perciò esso è assolutamente necessario, in quanto se non vi fosse l’essere, qualsiasi altra cosa non sarebbe, perché tutto dipende da esso e fonda in esso. Dunque tutto ciò che è, è innanzitutto essere e, in quanto integralità dell’essere, è Uno.

Senza approfondire la qualità sovraessenziale dell’Uno, in quanto precausa di ogni causa e quindi anche della prima causa formale di tutte le cose, ovvero dell’Uno in quanto limite o peras, occorre dire che nell’Uno deve essere individuato il Principio della Misura, metron, del limite, peras, del giusto mezzo, meson, dell’ordine, kosmos, taxis, perciò, evidentemente, l’Uno riveste un carattere assiologico e valoriale assolutamente primario, quindi l’Uno non può che essere il Bene inteso nella sua integralità, la fonte primaria di tutti i beni e di ogni valore. L’Uno è Bene anche perché coincide con il Vero Assoluto, in quanto l’Uno è Essere Assoluto perfettamente identico a se stesso, immutabile, senza molteplicità e senza alcuna alterità. Nell’Uno il conoscere assoluto coincide con la Sua Realtà, perciò in esso sussiste l’identità del perfetto conoscere dell’Essere e della perfetta attuazione del Vero.

Per trattare meglio dell’Uno come Bene, dobbiamo approfondire che cosa intendiamo effettivamente per Bene, o ciò che Platone vuole significare parlando dell’Uno come Bene. Il Bene viene inteso da Platone come sostanza dell’Uno oppure come Principio Primo totalmente autosufficiente e dunque assolutamente privo di bisogno. La completezza dell’Uno lo rende privo di ogni tendenza all’altro, perciò il Bene è tale innanzitutto in quanto è Uno e, secondo Platone, dall’Uno, in quanto Bene, derivano tutti gli attributi unificanti e beneficenti, tra cui, innanzitutto, la potenza limitatrice e informante dell’Uno.

Se vogliamo dare una definizione generale del termine Bene, risaliamo al latino Bonvm, un termine che deriva dall’antico Dvonvm o Divonvm, il quale si può distinguere in divo-nvm, la prima parte del termine, div-, indica l’effulgenza, la radianza senza limiti della luce, mentre nvm, indica la potenza che inerisce a questa effulgenza. Il termine arcaico Divonvm, che successivamente è diventato Divinvm, definisce l’attività radiante infinita e la potenza assoluta di produrre e determinare ad essa associata. Se da Divinvm risaliamo a Bonvm e infine a Bene, il senso sommo del termine indica l’attualità pura dell’Essere Infinito, incondizionato e indeterminato, l’atto totale, onnicomprensivo, perfetto e senza alcuna deficienza, dell’Essere, che si identifica con la pienezza integrale della realtà e di ogni cosa e, allo stesso tempo, con la potenza assoluta di far sussistere tutto ciò che è.

Come vedremo meglio più avanti, il Bene, in se stesso, ha questa natura e quindi tutto ciò che partecipa ad esso, e presenta uno stato analogo a quello del Bene, non può che essere individuato dall’essere perfettamente in atto. Quindi, anche per un essere finito e determinato il sommo bene è costituito dall’attualità pura del suo essere proprio, della sua essenza, la quale, quando è in atto perfettamente, esprime integralmente la natura dell’ente nella sua esistenza, senza alcun impedimento o costrizione; questo è lo stato di perfezione relativa di un dato essere, che si definisce tale in rapporto alla Perfezione Assoluta del Bene Supremo.

Quando si pensa l’Uno come Bene occorre pensarlo come Potenza Assoluta di Essere, nella quale sussistono tutte le cose, però, in quanto dynamis panton, l’Uno non fa parte di alcuna delle cose, quindi le trascende e le comprende tutte, pur costituendole nella sua Potenza Infinita. Quando diciamo “potenza” non utilizziamo il concetto di potenza elaborato da Aristotele, per il quale la potenza è attribuita alla materia in rapporto all’atto che è proprio della forma. Questa relazione implica una passività ricettiva, opposta all’attività produttrice dell’Uno, mentre la potenza che noi attribuiamo all’Uno va intesa come Possibilità Integrale dell’Attività, la quale comprende e trascende ogni determinazione e ogni atto. Pertanto, essendo l’Uno una potenza sovraeminente, una sorgente inesaurabile di energia, ovvero di attività infinita, trascende inevitabilmente anche il primo atto determinato d’essere, che corrisponde all’Ente, al Primo Intelligibile, perciò l’Uno è il produttore non producente dell’essenza e dell’autosufficienza, in quanto non è essenza, ma è al di là dell’essenza e dell’autosufficienza, epekeina autarkeias. Resta evidente che l’Uno, in quanto possibilità di essere tutte le cose, è tale perché le cose sono come “suoi effetti”, ma, in quanto potenza assolutamente trascendente, esso non può essere appreso attualmente se non attraverso i suoi effetti e non può essere colto noeticamente se non come unità multipla. Queste operazioni avvengono nel dominio degli “effetti”, non in ciò che è l’Uno e perciò, a partire “dagli effetti dell’Uno”, noi possiamo risalire alla conoscenza dell’Uno, in quanto essere che non è alcuno dei suoi effetti.

Platone tratta dell’Uno, con tutte le implicazioni che la sua ammissione e l’affermazione del suo essere comporta, e con tutte le derivazioni che la presenza dell’Uno stabilisce. In modo particolare tratta dell’Uno come Bene nel Filebo, un dialogo nel quale egli insiste fortemente sull’Uno come Bene, inteso nella sua mediazione, o meglio, inteso come principio attraverso cui l’Uno si comunica a tutte le cose determinate e unificate, apparendo per esse il limite, il peras, ovvero l’universale principio formale degli enti, ciò che per essi è il limitante, il finente, e dunque anche il principio dell’essere, dell’intelligibilità e del bene. Il limite, essendo presenza dell’Uno nell’immanenza dell’alterità e della determinazione, ha la preminenza su tutte le cose, perciò anche su ciò che è indeterminato, illimitato, apeiron, quindi il limite rende i contrari commisurabili e armonizzabili fra loro. È proprio attraverso il limite che l’Uno è “beneficente”, perché il limite è misurante, unificante, costituente essere e atto, e stabilisce nell’esistenza la piena attività dell’essenza. Attraverso il potere costituente del limite viene portato il non essere all’essere, la dismisura alla misura, l’illimitato al limitato, il disordine all’ordine, il molteplice all’Uno, perciò, quando tratteremo del male, vedremo che tutto ciò su cui il limite “impera e domina” ha a che fare con esso.

La concezione dell’Uno come Bene è adombrata già nella dottrina del proton philon del Liside, del Primo Amico, concepito come qualcosa in vista del quale diciamo amiche tutte le cose, che ne sono come immagini, il Primo Amico, ovvero il Bene, ha perciò un valore assoluto, ed è causa finale di tutte le cose. Anche nella dottrina del Bello in sé, svolta nel Simposio, si prepara quella dottrina particolarmente elaborata dell’Uno-Bene che viene esposta per simboli nel VI libro del Repubblica, nel quale Platone definisce esplicitamente la natura principiale del Bene, ponendolo al di sopra dell’essenza e della conoscenza, e dunque ritenendolo il principio causale di entrambi. La concezione dell’Uno come Bene si trova anche nel concetto di “giusta misura assoluta” del Politico, quella Meghiston Mathema che regola tutta l’Esistenza Universale, quella intelligibile e quella sensibile, ed inoltre fonda le arti, la politica e la giusta azione morale. Ma nel Filebo viene svolta una più precisa trattazione, anche se parziale, di ciò che era trattato nella sua integralità nell’ambito esoterico dell’Accademia, in questo dialogo emerge una più ampia trattazione di ciò che Platone intende per Bene.

Nel Filebo non si tratta dell’Uno inteso nella sua assolutezza, ma si prende in considerazione l’apparente rapporto dell’Uno con la potenza dell’alterità, della moltiplicazione indeterminata o dell’apeiron, quindi si guarda principalmente all’Uno come peras o limite, e perciò anche, in modo particolare, come misura, unità e bellezza. Quindi si tratta dell’Uno dal punto di vista degli effetti, dall’esperienza di ciò che è compreso nell’Uno ed è sovrastato dal Bene, si guarda all’Uno a partire dai prodotti causati o dagli effetti intelligibili e sensibili. Parlando dell’Uno come principio ordinatore e misuratore, Platone ribadisce il fatto che l’Uno organizza l’intera costituzione dell’esistenza universale, perché anche il dividersi e il moltiplicarsi richiedono un’attività trascendente, un’unità sovrastante che unifichi e limiti le parti rispetto al tutto. Perciò in ogni singolo piano dell’esistenza determinata è presente l’Uno come limite e misura, il suo ruolo viene preposto in modo netto all’intero e alla parte. Per svolgere la sua funzione l’Uno non può avere alcuna articolazione interna, né può sdoppiarsi in alcun modo, perciò tutto ciò che risulta molteplice, o avente una funzione moltiplicante, non coincide con l’Uno. Nel Filebo sono molti gli esempi in cui si tratta dell’azione dell’Uno in quanto limite e misura, e dunque anche della costituzione dell’ente secondo l’essenza e l’atto entro il confine di una data natura. Platone parla del limite in riferimento alle malattie e alla musica, e poi trae diverse conseguenze da vari esempi.

In particolare Platone tratta del Bene nella parte finale del Filebo, anche se, pur alludendovi diverse volte, il Bene non viene mai definito completamente, il Bene viene comunque posto come termine finale di tutti gli atti dell’anima, perciò va individuato e realizzato in modo tale da assicurare all’uomo intero una vita perfettamente felice. La ricerca e l’individuazione del Bene comporta una definizione dialettica dei caratteri che, secondo il ricercatore, il Bene dovrebbe possedere, perciò passando di discorso in discorso, i dialoganti raggiungono alcune conclusioni, per le quali nel Bene si deve trovare la completezza, l’assolutezza, la stabilità e specialmente, oltre ad essere causa formale e principio di misura, ordine e bonificazione del tutto, il Bene deve essere causa finale, il termine ultimo di ogni desiderio, il fine ultimo di ogni azione per tutti gli enti che non coincidono con il Bene stesso. Il travaglio della ricerca discorsivo-dialettica del Bene porta ad individuare il Bene come conoscibile e conosciuto, anche perché, se il Bene non fosse conoscibile non sarebbe possibile trarre tutte le conseguenze benefiche che nel piano etico e realizzativo la conoscenza del Bene produce.

Il Bene deve essere superiore a qualsiasi cosa, perfettamente uno e assolutamente potente, principio di ogni cosa e referente assiologico perfetto. In particolare il Bene nelle cose determinate sarà riconoscibile come limite, misura, proporzione, simmetria, verità, ecc., e quindi anche come bellezza, in particolare proprio il bello costituisce la rivelazione, coglibile anche dalla visione o dall’intellezione, del Bene. In ogni caso, il Bene rimane sempre superiore, per dignità e potenza, all’Ente, e a tutto ciò che è atto finito e determinato, a tutto ciò che è essenza, perciò il Bene si colloca al di sopra della scienza della verità, delle cose misurate e del bello. In esso si trova la perfezione della compiutezza, la pienezza di ogni perfezione e quindi la massima desiderabilità, perciò il Bene è il principio motore di ogni tendenza alla Perfezione dell’Essere presente in tutti gli enti finiti.