Perché ogni ente finito presenta un suo specifico moto? Qual è il senso del motvs? Che cosa innesca il motvs? Come deve essere inteso l’appetitvs?

Noi sappiamo che l’Uno, in quanto pienezza integrale dell’Essere Assoluto, è Sostanza Infinita a cui non manca nulla, perciò è priva di ogni bisogno. Essendo comprensivo di ogni cosa, l’Uno non ha relazioni, limitazioni e quindi non presenta alcun tipo di moto né modificazione, quale blocco integrale di realtà è assolutamente inalterabile e non è riducibile a qualsiasi dimensione nella quale sussista qualsivoglia genere di pena, privazione e finitezza. Esiste invece una serie di enti che partecipano della pienezza integrale dell’Uno, senza possedere interamente la sua pienezza, la serie ha il suo inizio nel Primo Ente Intelligibile nel quale l’Unità Integrale dell’Essere si trova diminuita secondo la specie dell’Essenza. L’essere specifico del Primo Ente sussiste nell’Uno grazie alla sua immediata tendenza infinita all’Uno, che è di tipo sovraessenziale, ma è solo in virtù di questa tensione che l’Ente può sussistere nell’alterità accogliendo l’Uno nell’intimità del suo centro ontologico. In quanto Uno che è, il Primo Ente Intelligibile non può che essere ciò che è, mentre l’Uno, come sappiamo, può essere ad un tempo ciò che è e costituire ciò che non è, ovvero, in prima istanza, il Primo Ente Intelligibile, il quale, per la sua principiale privazione, non comprende integralmente la Realtà Infinita, perciò nel suo essere proprio l’atto è limitato alla costituzione essenziale dell’Uno secondo l’intelligibilità.

A far principio dal Primo Ente Intelligibile sussiste una gerarchia di stati inferiori dell’essere che presentano gradi crescenti di privazione dell’unità integrale e plenaria dell’Essere. Ad ogni grado di privazione corrisponde una limitazione, alla quale inerisce un appetitvs sempre più illimitato e indefinito man mano che lo stato dell’essere decresce fino all’infimo non essere. L’appetito determinato dell’ente tende all’Essere, però, quanto più l’ente è stato costituito nella privazione della fruizione integrale della realtà e dunque nel disordine, nell’ignoranza e nella smisuratezza, tanto più avrà possibilità relativamente ridotte di riacquisire la pienezza originaria. Inoltre, la Realtà Integrale è rigorosamente immutabile e trascende sia il moto spaziale, che quello locale, ma anche il “moto ontologico”, mentre tutti gli enti determinati, in qualche modo, sono soggetti ad un loro moto proprio, un moto che è segno di limitazione e tendenza alla pienezza. A far principio dal primo moto, che è proprio del motore immobile che ruota su se stesso in se stesso, ovvero del moto del Primo Ente Intelligibile, fino ai moti sempre più imperfetti e non autocentrati degli enti, si sviluppano tutti i moti dei singoli esistenti, il cui dinamismo degrada fino a perdere di vista il termine finale del moto. Il moto va dunque considerato come qualcosa di inferiore alla stasi, gli enti sono in movimento proprio perché mancano dell’immutabilità dell’Essere e della sua completezza, dunque ogni cosa mobile ha un grado di consistenza relativo nell’essere, in confronto a ciò che sta in sé e per sé immobile nella sua natura integrale. È così comprensibile l’affermazione di Aristotele, per il quale Dio diventa oggetto di appetito per tutte le sfere celesti, poi divenute sfere angeliche nella dottrina cristiana[1].

In senso generale, i diversi enti che “procedono” per determinazioni successive dall’Uno sono enti nei quali si costituisce un grado di appetizione preciso verso la loro causa immediatamente antecedente e, in senso lato, verso il principio supremo di ogni ente, verso l’Uno:

“…tutte le cose cercano di rassomigliare a questo identico, ma alcune lo raggiungono da lontano, altre un po’ di più e solo nell’Intelletto lo raggiungono veramente; poiché l’Anima è una e ancor più è uno l’Intelletto, ed anche l’Essere è uno…… Sembra perciò che l’Uno che è in ogni cosa guardi soprattutto al Bene, quanto più essa raggiunge il Bene, tanto più è una, e proprio in questo Bene consiste la sua maggiore o minore unità. Ogni cosa infatti non vuole essere così come è, semplicemente, ma vuole essere insieme col Bene. Per questa ragione, ciò che non è uno si affretta, per quanto può, a diventare uno; ….Egli è cioè il loro punto di partenza e la loro meta, perché dall’Uno hanno la loro origine e tendono all’Uno. E così è anche del Bene. Non esiste nella realtà alcuna cosa – e se pure ci fosse, non persisterebbe – la quale non abbia questa tendenza all’Uno”,[2]

In quanto l’Uno è il principio e la fine di ogni ente, ciò che determina la loro essenza e ciò che la ricostituisce nel suo fine, l’Uno è, per tutti gli enti ma non per Lui, il Bene, perciò ognuno di essi tende verso l’Uno come alla sua origine, quindi principio e fine tendono a coincidere dappertutto:

“Ed è questo il più solido principio di tutti, che le nostre anime in qualche modo enunciano; è un principio che non viene dedotto da casi particolari ma che è anteriore ad essi e che è anzi anteriore al principio che sostiene e afferma che tutte le cose tendono al Bene. E infatti questo principio sarà vero soltanto a condizione che tutto aspiri all’Uno e l’Uno esista e l’aspirazione tenda a Lui. Questo Uno, certamente, procede, per quanto gli è possibile, verso le altre cose, appare molteplice e in qualche modo anche lo è; ma l’antica natura e l’aspirazione al Bene, vale a dire a se stesso, conducono all’Uno e a Lui – e cioè a se stessa – tende ogni natura. Per ogni singola natura, infatti, il bene consiste nell’appartenere a se stessa e nell’essere se stessa, cioè nell’essere uno.

Altrettanto, con ragione, si dice che il Bene è proprio dell’Essere: perciò non bisogna cercarlo al di fuori. Dove infatti potremmo trovare un bene che sia fuori dell’essere? E come si potrebbe trovare il proprio bene nel non essere? È ovvio che esso va trovato nell’essere perché non è non essere. Se esso esiste ed è nell’essere, esso sarà in ogni cosa in se stessa. Noi dunque non siamo separati dall’Essere, ma siamo in Lui ed Egli non è separato da noi: tutti gli esseri sono perciò Uno”[3].

 

Ogni ente aspira all’Uno, e quest’aspirazione è un’aspirazione ad essere Uno, ovvero ad essere Intero, Pieno, privo di ogni mancanza, totalità integrale della realtà e quindi anche completezza di ogni perfezione. Perciò la tendenza insita in ogni singola natura determinata è quella volta a costituire la propria oikeiosis, cioè l’appropriazione di sé, l’appartenenza a sé, l’essere sé, fino a realizzare la perfezione dell’Essere Uno, quindi ogni ente sarà perfetto nella misura in cui si fa Uno. Ma solo l’Uno permane nell’essere Uno senza alcuna mutabilità, tendenza e quindi alterazione, mentre tutti gli enti tendono all’Uno e ad essere Uno in modo relato, secondo il loro proprio appetito. Se il termine finale dell’appetito è sicuramente l’essere Uno, perché non è possibile trovare niente di più completo, di più terminale, un bene finale ulteriore rispetto all’essere infinito e perfetto dell’Uno, risulta evidente che il non essere, equivalente al non plenario, al non completo e così via, non ha nulla a che vedere con il bene dell’ente e perciò solo nell’essere deve essere ricercato il bene.

Dunque, se il bene si trova nell’essere non può che trovarsi in ogni cosa quando essa è in se stessa, cioè nel suo essere proprio, ma ciò che costituisce l’ultima natura di tutte le cose, quella che comprende e trascende tutte le nature particolari, risulta essere l’Uno, nell’attualità plenaria integrale dell’Uno può però trovarsi pienamente costituito solo quell’ente che si è rivolto all’Identità Suprema. Non a tutti gli enti è dato fruire pienamente di sé, ovvero dell’essere Uno, ma a ciascuno è possibile partecipare dell’Uno in modi diversi, secondo la loro essenza particolare. In definitiva ogni ente non cerca un’altra cosa rispetto a se stesso, ma tende sempre solo a se stesso secondo il suo moto, il quale tende ad attualizzare l’essere dell’ente affinché possa costituirsi nell’essere, nel bene. Perciò la molteplicità è sempre negativa per ciascuno degli enti, perché essa è presente quando l’ente è incapace di essere d’accordo con se stesso e la semplicità della sua essenza, perciò, non essendo in se stesso, esce da sé e si disperde nell’alterità e nella molteplicità, Questo moto esteriorizzante, questa dispersione, lo priva dell’Uno in diverso modo e grado; divenendo molteplice, all’ente viene a mancare ciò che lo unifica e dunque il suo bene proprio, quindi quando l’ente si disperde nei molti si estende nella privazione e nella pena.

Ogni cosa deve cercare se stessa, non un’altra cosa, perché il moto fuori di sé è sempre vano, si deve tenere per certo che ognuno è maggiormente se stesso quando è uno, non quando è molteplice, cioè quando appartiene completamente a se stesso ed è in atto secondo la sua unitaria natura essenziale, ma esso può appartenere a se stesso solo quando ripiega il suo atto completamente sulla sua essenza. Come sappiamo il Primo Ente Intelligibile è anche il Primo Ente il cui atto è interamente ripiegato su se stesso, ciò avviene secondo la più semplice relazionalità, mentre l’Uno, che trascende anche il Primo Intelligibile, è Atto Infinito senza alcuno ripiegamento su di sé, perciò non presenta alcuna intrarelazione immediata a se stesso. L’Uno è già Uno sempre, niente deve compiere per essere in accordo con la sua Unità, l’Atto Infinito e l’ Unità Suprema coincidono senza alcuna differenza. Invece gli enti, a partire dal Primo, e discendendo nelle gerarchie inferiori, devono compiere atti che si rivolgano alla loro essenza, ma, tolto l’atto del Primo Ente, gli atti degli enti che vengono dopo il primo non ripiegano più immediatamente su se stessi, ma, al contrario, tendono a disperdersi nel senso della dualità o della molteplicità e dunque volgono alla privazione dell’unità. Più l’atto dell’ente diventa eteronomo, più esso fa sussistere l’insufficienza e la pena, ma, dato che solo ciò che è perfettamente Uno è totalmente autoconsistente e privo di ogni dipendenza, ciò che non è Uno in se stesso, ma è molteplice, non avendo l’atto della propria essenza perfettamente ripiegato su stesso, sussiste nella dipendenza, nell’inconsistenza e nell’eteronomia.

Noi sappiamo che il termine bene ha un significato specifico che deriva dal latino antico, ovvero dall’arcaico dvonvm, parola composta dalle parti divo e nvm, dalla quale proviene il termine contratto bonvm. Col termine div-, divo-, si indica l’effulgenza, la radianza senza limiti della luce, mentre col termine nvm-, si indica una volontà agente, una potenza in atto. La composizione divonvm è assai prossima alla parola divinvm, con la quale si indica la potenza dell’effulgenza senza limiti della luce. Il termine bene viene da benvs, a sua volta modificazione di bonvs, il quale infine deriva dal neutro bonvm, equivalente per significato al greco agathon, l’eccellente, il compiuto, e, per analogia, ciò che è massimamente elevato, signore, nobile, ecc. Se il termine bonvm indica la pienezza senza privazione, la totalità di una perfezione senza limite, il suo opposto malvm, da cui i termini malvs e male, indica, dalla radice mal-, la privazione di pienezza, la diminuzione dell’interezza, il degrado della perfezione, la pena dell’essere e la costituzione di una limitazione alla radiazione infinita della luce, con la produzione di relativi oscuramenti. Per analogia vi è male laddove non ci sono compiutezza, interezza, unità, dove mancano la signoria, la nobiltà, ecc., significati presenti anche nel greco kakon.

Da quanto abbiamo esposto possiamo adoperare il termine bene come sostantivo neutro, per indicare ciò che, in senso universale, è atto puro integrale e perfetto, il Bene, inteso in senso eminente, coincide con l’Essere Infinito e Assoluto, privo di qualsiasi limitazione, determinazione o condizione, il quale presenta una totale sufficienza, una compiuta perfezione e una totale assenza di bisogno e di pena. Ne deriva che ciò che non coincide immediatamente col Bene, e dunque con l’Unità Integrale dell’Essere, presenta limitazione, determinazione e condizione, quindi patisce, in qualche modo, un dato grado del male. Il male, essendo ciò che priva della pienezza dell’Essere, della completezza infinita l’atto, avvolge, costringe e limita l’essere in uno stato determinato, in cui la perfezione non è più pienamente presente. Allora, se per un dato ente determinato il sommo bene è costituito dall’attualità pura, senza alcun impedimento o costrizione, della sua natura, del suo essere essenziale, in definitiva del suo essere Uno[4], per lo stesso ente il male costituisce “la negazione” o la privazione, in grado diverso, dell’atto del suo essere, dunque per l’ente partecipare del male equivale a patire il “non essere”, a subire ciò che riduce in potenza l’essere, privando l’ente della piena attuazione del suo bene, di se stesso e della sua vita propria. Pertanto, ogni ente che sussista nella limitazione partecipa in qualche modo della negatività ad essa connessa, anche se un dato ente si trova in atto secondo la sua essenza, ma questa essenza è effetto di una limitazione, in qualche modo esso è soggetto ad una mancanza di attualità integrale dell’essere, della fruizione integrale della pienezza dell’Essere Infinito, del Sommo Bene Universale. In ogni caso, se per ogni ente essere in atto secondo la propria essenza è un bene relativo rispetto all’Uno, è invece un male non trovarsi in atto secondo il suo essere proprio, ovvero risultare soggetto a qualche limitazione dell’attualità della sua natura, soffrendo così costrizione e asservimento, egli soffre la pena dovuta alla accoglienza del male. Da quanto esposto possiamo derivare il fatto che esiste un grado di partecipazione relativa al Sommo Bene proprio a ciascun ente, esiste poi la possibilità per dati enti di realizzare integralmente il Bene, che coincide con l’Uno, come il proprio Sommo Bene.

Tratto da Viola L.M.A., Psyches Therapeia.

© Associazione Igea 2018
C.so Garibaldi, 120 – Forlì

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale, se non autorizzata in forma scritta dall’Associazione.

 

 

 

[1] Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1118, B, 8 e segg.; VII , 1149 B, 4 e segg.

[2] Plotino, Enneadi, VI, 2, 11.

[3] Ibidem, VI, 5, 1.

[4] Ibidem VI, 6, 1.