Nel descrivere il presunto “progresso psichiatrico”, i manuali di storia della psichiatria insistono molto accuratamente sulla psichiatria moderna, che deriva dalla dissociazione dalla psicoterapia tradizionale e, dunque, dalla vera cura dell’anima, nel suo duplice senso. Nella modernità, a causa dell’abbandono della tradizione teologica e della filosofia religiosa tradizionale, si sono costituite una scienza naturale della psiche e una relativa medicina psichiatrica, ma solo negli ultimi due secoli, quando è avvenuto pressoché completamente il distacco da ogni orizzonte di carattere metafisico e religioso[1] e si sono definite le scienze psicologiche e psicoterapeutiche ancora oggi in uso. La storia della cura dell’anima è plurimillenaria, definita in modo dialettico da Socrate e sistematizzata da Platone, la psicoterapia filosofica ha avuto uno sviluppo di alcuni secoli prima di essere rielaborata nell’ambito della chiesa cristiana exoterica, la quale, in generale, ha svolto la più ampia cura animarvm attraverso la sua attività pastorale. È stato solo a partire dallo sviluppo del dualismo cartesiano relativo ad anima e corpo che ha avuto origine uno studio dell’anima di tipo moderno, che ha portato all’attuale psicoterapia, la quale, come vedremo, costituisce una parodia della psicoterapia filosofica tradizionale originale.

Occorre sapere che esiste una psichiatria che ha ben altra dimensione ed effetti rispetto a ciò a cui si è ridotta la psichiatria oggi, una psichiatria che affonda le sue radici nel principio della civiltà e ha mantenuto una natura religiosa e filosofica. Da due secoli a questa parte la psichiatria tradizionale ha subito attacchi continui e oggi si conserva in domini circoscritti e in rare istituzioni, mentre la psichiatria naturalistica si è sostanziata della prassi medica moderna, che ha un carattere antitradizionale, soggiacendo ad illusioni e chimere, che ha trasferito nella “cura dell’anima” dell’uomo.

Nel contesto in cui ci poniamo con questo scritto, descriveremo la concezione della filosofia come psyches therapeia, così come si è costituita nella tradizione filosofica pitagorico-platonica e definiremo la figura del filosofo, definita in principio da Socrate come iatros tes psyche, ovvero come medico dell’anima, presenza di Apollon Iatros. Certamente Socrate avrebbe completamente disapprovato una psichiatria “scientifica” del tutto astratta dalla religione e dalla filosofia, un’aberrazione che non può in alcun modo portare ad esiti positivi. La psichiatria attuale è indifferente alla religione e alla filosofia, ma è anche decisamente e fortemente ostile ad esse. È significativo che un critico della psichiatria moderna possa dire che essa “non è una religione”, ma, allo stesso tempo, pretende di essere una scienza che si presenta come una falsa religione, che nega e cerca così di distruggere la vera religione[2].

Dopo il magistero divino di Pitagora, è Socrate che ha delineato con molta precisione la figura del filosofo come colui che è dedito alla epimeleia heautou, alla “cura di sé” e, perciò, come vedremo, alla cura della psiche o dell’anima, in quanto il nucleo ontologico dell’identità dell’uomo sensibile è identificato dal filosofo con essa. A livello pubblico e civile il filosofo si caratterizza come inviato di Dio fra gli uomini, per svolgere una funzione medica nei confronti dell’anima dell’uomo, perché l’anima si trova in una condizione di pena, causata dall’ignoranza subentrata con l’incarnazione. Socrate svolge una funzione fondamentale anche quando individua chi è il vero conduttore di anime, distinguendolo da colui che le svia dalla loro cura, ovvero il sofista. Il sofista non si occupa di ciò che attiene alla vera essenza dell’uomo, perciò, come i moderni psichiatri, esso presenta una cura dell’anima in modo ingannevole, perciò deve essere smascherato, affinché colui che vuole prendersi cura di sé non sia ingannato da questo falsario.

Quanto andremo ad esporre restituisce chiarezza e senso all’autentica psicologia e, conseguentemente, anche all’igiene dell’anima, alla sua cultura, così come alla sua cura. Metteremo chiaramente in luce come non si possa, in alcun modo, separare la trattazione della salute dell’anima dalla metafisica e dalla religione, perciò anche dalla filosofia, che costituisce l’essenza della disciplina psicoterapeutica.

Separare completamente la medicina, e in particolare la psichiatria, dalla natura reale dell’uomo, dal suo essere proprio, ovvero dall’anima, è un’aberrazione che porta a conseguenze disastrose. Pensare che l’anima possa essere curata “scientificamente” come si curano dei corpi, è una opinione priva di qualsiasi fondamento.

E infatti, tutti i mali e i beni per il corpo e per l’uomo nella sua interezza, soggiungeva, nascono dall’anima, come per gli occhi derivano dalla testa e ad essa innanzitutto e soprattutto, bisogna rivolgere la cura [therapeuin], se si esige ottenere la salute sia per la testa che per il resto del corpo. E l’anima [psyche], o caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi [epodas] sono i bei discorsi [logoi], da cui nell’anima si genera la temperanza [sophrosyne].”[3]

Così Socrate introduce formalmente la psyches therapeia nel cuore della medicina, indicando nella cura dell’anima il rimedio essenziale per anima e corpo e, dunque, per l’uomo intero. Senza psyches therapeia la salute [hyghieia] non può essere ottenuta, ma la therapeia consiste in “discorsi magici”, che hanno un’efficacia catartica per l’anima, perché permettono la rimozione del morbo e il ristabilimento della salute, la quale, in rapporto al corpo, è sophrosyne, temperantia. La malattia dell’anima è l’anoia, la mancanza del noein, della noesis[4], ovvero dell’attività noetica del nous, dell’intelletto separato dalla discorsività e dalla sensazione. L’anima dell’uomo è l’uomo vero, non il corpo, ed essa è immateriale e si identifica essenzialmente con il nous, quella “parte divina” in cui si producono il conoscere e l’intelligere[5] Il nous è simile al Dio, la sua virtù è sapienza [sophia][6], quando la psyche guarda ad esso, e perciò costituisce l’attività contemplativa [theoria], conosce tutto il divino [theion gnous], sia il Dio [theon] che il suo sapere [phronesin], ma in questo modo la psyche, nel nous, consegue anche la più grande conoscenza di sé [eauton gnous][7]. E conoscere se stessi è temperanza[8], in accordo con la sentenza scritta sul frontone del Tempio di Delfi[9], sentenza che la tradizione  vuole pronunciata dal Dio Apollo. Il Dio invitava i fedeli a conoscere se stessi e, allo stesso tempo, a essere modesti, misurati, temperanti. Conoscenza di sé e misura di sé sono due atti contemporanei, se avvengono secondo l’essenza dell’uomo, ovvero secondo il nous, pertanto il Dio Apollo, con questa sentenza identifica conoscenza di sé e temperanza e stabilisce che la temperanza è “scienza sia di se stessa che delle altre scienze” e dunque “sia della scienza che dell’ignoranza”[10]. Perciò chi conosce se stesso misura se stesso ed è temperante, ovvero misurato in tutti i suoi atti secondo la sua essenza, sarà quindi in grado di “… stabilire che cosa conosce e che cosa no e, allo stesso modo, di indagare, riguardo agli altri, che cosa ciascuno sa e crede di sapere per appurare se veramente lo sa e che cosa crede di conoscere, ma in realtà ignora e tutto questo lui solo può farlo; pertanto l’essere temperante e la temperanza consistono nel conoscere se stessi e nel sapere che cosa si sa e che cosa non si sa[11]”.

I discorsi di Socrate riunificano la hyghieia, la salute dell’uomo, con la temperanza, sophrosyne, conoscenza di sé e misura di sé, ne deriva che la salute dell’uomo si costituisce quando l’anima conosce se stessa. L’anima conosce il Divino e se stessa nel nous attraverso il noein, che costituisce noesis, in questa attività si risolve la aretè della psyche, la virtù dell’anima, la sapientia-sophia. Pertanto, visto che la conoscenza di sé si costituisce attraverso sophia, e questa conoscenza è hyghieia, sophia e hyghieia coincidono. La psyche perciò è malata quando ignora se stessa, perché non è in atto il suo noein; la anoia è quindi la malattia essenziale dell’anima, da cui derivano tutti i mali dell’anima e del corpo, perciò se non si cura l’anima nessun male può essere risolto[12], e chi non cura innanzi e soprattutto l’anima, non potrà curare nessuno dei mali che affliggono l’uomo. L’anima si cura con logoi di verità, con il discorso vero che ricostituisce nell’anima il noein, e perciò anche l’autoconoscenza e la gnosi divina. Il discorso vero però non può essere espresso dal sofista, ma solo dal dialettico che possiede il potere medico della parola sanante, quindi solo il dialettico sapiente può curare l’anima. La dialettica, in quanto essenza di philosophia, costituisce la vera medicina dell’anima, perciò in essa occorre individuare la vera psyches therapeia.

La philosophia è stata costituita dal Dio Apollo  attraverso la sua theophania in Pythagoras, nel Divino Sapiente si trova il principio della tradizione della cura dell’anima, una tradizione apollinea, nella quale sono inclusi Socrate e Platone. Tutta la filosofia è finalizzata al “conosci te stesso e misurati”, e dunque mira alla realizzazione della hyghieia-sophia della psyche. Al tempo della comparsa dell’iscrizione sul Tempio di Delfi, coeva alla teofania pitagorica, la necessità della conoscenza di sé si era costituita con urgenza nell’umanità. Apollo, in quanto Divino Medico, si è costituito nei suoi “inviati” per soccorrere, per dare soteria all’uomo. Socrate ha svolto una specifica funzione, dopo che il Dio Apollo ha stabilito che Socrate era il più sapiente degli uomini, perché sapeva di non sapere, sapeva che la conoscenza umana titanica è ignoranza[13], lo ha inviato fra gli uomini, affinché abbandonassero la presunzione di sapere e riconoscessero di non sapere nulla, un riconoscimento fondamentale, perché è il solo che permette di dare inizio alla cura dell’anima e quindi di accogliere i logoi che ricostituiscono il noein, l’attività virtuosa del nous[14], e perciò anche la sophia-hyghieia.

È alla psyches therapeia che Socrate dedica tutta la sua vita, il Dio Apollo lo incarica di questa funzione, perciò Socrate opera sempre e solo perché il Dio Apollo glielo comanda[15], e ogni sua azione è obbediente al Dio[16]. Socrate va incontro alla morte, “martire” della filosofia, sereno e beato, egli non può accettare che il mandato divino a lui assegnato dal Dio venga tradito per fare contenti gli ateniesi, infatti è per il loro bene che Apollo lo ha inviato a loro, dunque egli non può dire altro che:

“O cittadini ateniesi vi sono grato e vi voglio bene, però ubbidirò più al Dio che non a voi e finché abbia fiato e sia in grado di farlo, io non smetterò di filosofare, di esortarvi e di farvi capire, sempre, chiunque di voi incontri, dicendogli quel tipo di cose che sono solito dire, ossia questo: “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il più possibile e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?» E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà  di prendersene cura, io non lo lascerò andare immediatamente , né me ne andrò io, ma lo  interrogherò, lo sottoporrò ad esame e lo confuterò. E se mi risulterà che egli non possegga virtù, se non a parole, io lo biasimerò, in quanto tiene in pochissimo conto le cose che hanno il maggior valore, e in maggior conto le cose che ne hanno poco. E farò queste cose con chiunque incontrerò, sia con chi è più giovane, sia con chi è più vecchio, sia con uno straniero, sia con un cittadino, ma specialmente con voi cittadini, in quanto mi siete più vicini per stirpe. Infatti queste cose, come sapete bene, me le comanda il Dio. E io non ritengo che ci sia per voi, nella Città, un bene maggiore di questo mio servizio al Dio. Infatti, io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico. Se, dunque, con l’affermare questo io corrompessi i giovani, allora ciò sarebbe dannoso. Ma se qualcuno sostiene che io dico cose diverse, e non queste, costui non dice nulla di vero. Pertanto, o cittadini ateniesi, sia che diate retta ad Anito, sia che no, sia che mi lasciate uscire dal carcere, sia che no, ebbene io vi devo dire che non farò mai altre cose, neppure se dovessi morire molte volte”[17].

La funzione di Socrate è divina, egli è presenza provvidenziale del Dio Apollo che conduce l’uomo a costituire la hexis filosofica, perciò esorta chiunque a prendere atto che, se non si cura l’anima, se non si persegue la sua salute-sapienza, nulla di buono potrà mai essere compiuto. Perciò fino a quando l’uomo non darà inizio alla psyches therapeia, alla cura di sé, epimeleia heautou, Socrate non lo lascerà andare, perché sa che il solo suo bene è costituito dall’attività filosofica che porta a sophia, alla salute dell’anima e di tutto l’uomo. Egli non rinuncierebbe a questa funzione neppure se dovesse essere condannato ripetutamente, perché ciò di cui si occupa, il filosofare, costituisce l’unico bene a cui l’uomo deve dedicarsi per risanare la sua anima e recuperare sophia-hyghieia. Questa è la natura originale della psyches therapeia costituita dal Dio Apollo  e resa presente agli uomini in Pitagora, Socrate ha accolto un mandato preciso e ha svolto la prima parte del suo magistero esortando alla filosofia e rendendo possibile all’anima la therapeia, e dunque la rimozione del teras, della natura contraria all’essere proprio dell’anima, la corporeità, che impedisce al nous di esercitare liberamente il noein, e perciò di costituire sophia.

Quando gli uomini hanno perduto la conoscenza del bene, e perciò del fondamento della retta vita morale secondo giustizia, il Dio ha inviato Socrate a sollecitare la coscienza degli ateniesi, in modo che essi potessero recuperare la conoscenza di sé e del bene, per attuare la vita secondo la natura propria dell’uomo. Ridestando nelle anime dei suoi concittadini il primato della cura dell’anima, Socrate li ha orientati all’ottima condotta morale, che porta, allo stesso tempo, alla salute dell’anima e della città. L’opera di Socrate è tutta ordinata a sollecitare la cura di sé, il primo vero scopo a cui tutta l’azione dell’uomo deve essere indirizzata. Egli non ha alcun timore della morte, perché il saggio è indifferente ad essa, per lui non è importante il vivere in sé, ma come si vive. Il vivere come un vizioso, un vile, un infame è riprovevole per l’animo buono e Socrate non può tradire in alcun modo la dignità dell’animo umano e la virtù propria del saggio, tanto meno può indietreggiare di fronte alle minacce, tradendo la missione a cui il Dio lo ha preposto. Perciò, innanzitutto, Socrate insegna che, al di là di qualsiasi occupazione, l’uomo deve prendersi cura di sé, ovvero dell’anima, deve dedicarsi alla psyches therapeia, perciò egli dice ripetutamente che, finché egli abbia un soffio di vita e ne sia in grado, non cesserà mai di filosofare, un’attività che, come vedremo, coincide di fatto con la cura dell’anima. Socrate vuole condividere la filosofia con i suoi cittadini, “…con chiunque incontrerò…”, interrogando, esaminando, confutando e biasimando, perché l’uomo giusto non può considerare vili le cose di maggiore pregio e fare delle cose esteriori oggetto di maggiore cura rispetto alla sua anima. Il vero, l’unico bene dell’uomo, è la virtù, la perfetta virtù è costituita dalla sapienza, perciò tutta la vita dell’uomo deve essere dedicata alla sapienza. Chiunque si dedichi a questo fine è un uomo buono, che non può fare alcun male, né subire alcun male, né in vita né in morte[18]. Per Socrate l’anima ha dunque una preminenza assiologia su ogni altro bene, ne deriva una conseguenza immediata, l’urgenza della sua cura, ma curare l’anima significa, allo stesso tempo, curare la virtù e dunque la sapienza.

Proprio poco prima di assumere il veleno, Socrate richiama formalmente tutti i suoi discepoli alla cura dell’anima:

“Ma, o amici – disse –, su questo conviene riflettere: se l’anima è immortale, bisogna avere cura [epimeleia] di essa, non solo per questo tempo della nostra vita, ma anche per la totalità del tempo, e considerare che il pericolo, ora sembrerebbe terribile, se non si ha cura di essa” [19].

In questo passaggio Socrate adopera il termine epimeleia,  ἐπιμέλεια, che indica un’attività specifica nei confronti dell’anima, diversa rispetto all’azione indicata con il termine therapeia. Il termine semplice melete, μελέτη, indica la cura generale, l’interessamento, l’esercizio rivolto ad un dato fine, l’applicazione operativa per ottenere un certo risultato. L’epimeleia è un’univoca e perfetta attività rivolta ad un fine preciso, è il vertice della melete, perché il prefisso epi– indica “ciò che è sopra”, “al di là”, “in alto”. La epimeleia è un’azione “curativa” più generale rispetto a ciò che si compie nella therapeia, la quale è applicazione diligente, attenta, sollecita ed univoca, ad un compito, ad un oggetto, ad un’azione precisa, perciò la therapeia può indicare anche la cura diligente, la dedizione assidua, l’attenzione ordinata e unitaria ad un determinato ente. La therapeia è la specifica azione del “prendersi cura in modo particolare”, in rapporto all’anima implica l’eliminazione della smisuratezza, del teras, di ciò che non è conforme alla misura essenziale dell’essere dell’anima e al suo atto. Anche il termine paideia indica una forma specifica di cura. La paideia è l’insieme ordinato delle azioni che hanno un fine formativo, educativo, istruttivo rispetto all’anima, in funzione della realizzazione del suo atto perfetto. Occorre un esercizio culturale, per risolvere la dismisura, ciò che è contro la natura dell’anima, affinché l’anima possa essere formata in modo tale da raggiungere la pienezza della sua libera attività e dunque il suo sommo bene. In senso lato dunque, il complesso della paideia porta alla realizzazione perfetta della natura dell’uomo, eliminando ogni smisuratezza dai suoi atti e superando la soggezione a tutto ciò che per esso è un male.

L’anima deve diventare il più possibile buona e saggia, perché una volta giunta all’Ade avrà con sé solo la sua formazione spirituale, la sua paideia, παιδεία [20].

“Infatti, se la morte fosse totale liberazione da tutto, sarebbe un bel guadagno davvero per i malvagi liberarsi, quando muoiono, dal corpo, e, nello stesso tempo, liberarsi, insieme con l’anima, anche delle loro malvagità! Ma ora, dal momento che ci è risultato che l’anima è immortale, non le rimane nessun altro modo per sottrarsi ai mali e salvarsi, se non diventare buona e saggia quanto più è possibile. Infatti l’anima se ne va all’Ade, non portando nient’altro con sé se non la sua formazione spirituale e il modo in cui ha vissuto, le quali cose, come si racconta, sono per i morti di grandissima utilità o di grandissimo danno, fin dal momento in cui incominciamo il viaggio nell’altro mondo”[21].

L’anima attinge dalla paideia il suo nutrimento, trophe, τροφη, dal quale scaturisce tutto il suo comportamento, la paideia è tutto ciò che essa porterà con sé nell’aldilà, una volta che si staccherà dal corpo e darà inizio al suo viaggio nell’Ade.

Così “per questi motivi, deve avere ferma fiducia riguardo alla sua anima, l’uomo che durante la sua vita rinunciò ai piaceri e agli ornamenti del corpo, giudicandoli estranei e pensando che facessero solo del male, e, invece, si curò nelle gioie dell’apprendere, e, avendo ornato la sua anima non di ornamenti che le sono estranei, ma di ornamenti che sono a lei propri; cioè di temperanza, giustizia, fortezza, libertà [eleutheria] e verità [aletheia], così aspetta l’ora del suo viaggio nell’Ade, pronto a mettersi in viaggio quando verrà il suo giorno”[22].

Questo insegnamento giunge alle estreme disposizioni, che il Maestro dà ai suoi discepoli poco prima di lasciarli:

Non appena egli ebbe terminato di dire queste cose, Critone disse: “Ebbene, Socrate, hai disposizioni da dare a costoro e a me per i tuoi figli o per altre tue cose, che ti sarebbe particolarmente gradito che noi facessimo?”. “Quello che dico sempre, o Critone -rispose Socrate-, nulla di nuovo: cioè che, se vi prenderete cura [epimeleia] di voi medesimi, farete cosa grata a me e ai miei e anche a voi medesimi, qualunque cosa facciate, anche se ora non me lo promettete; se, invece, non vi prenderete cura di voi stessi e non vorrete seguire, quasi come orme, le cose dette ora e in passato, se anche ora me lo promettete con fermi propositi, non concluderete nulla”. “Per quanto riguarda queste cose – disse – certamente procureremo di fare così” [23].

L’ultimo invito di Socrate ai suoi discenti è lo stesso che ha rivolto a loro per tutta la sua vita: se essi non si prenderanno cura di loro stessi, cioè della loro anima, essi non concluderanno nulla. Come dovranno vivere i suoi discepoli? Se vivranno secondo quei principi che Socrate predicò nel suo magistero allora faranno qualcosa di buono, ma se non lo seguiranno tutto sarà perduto. L’epimeleia heautou, ἐπιμέλεια ἑαυτου, è ciò che Socrate lascia ai suoi discepoli come eredità, prima del suo congedo, se essi non si dedicheranno alla cura di sé non avranno possibilità di portare la loro anima al di fuori del male, perciò non otterranno nulla. Questa è l’essenza dell’insegnamento di Socrate, rivolto ai suoi discepoli e all’umanità intera.

L’epekeina ontos divenne il fulcro di tutte le scuole socratiche, che si svilupparono dai diversi discepoli di Socrate dopo la sua separazione completa dal corpo. La scuola di Megara, di Elide, di Cirene e dei Cinici, e poi, indirettamente, anche quella degli Stoici, svilupparono la filosofia essenziale del Maestro, in tutte le sue implicazioni, privilegiando ora un aspetto ora un altro. Ma fu la scuola di Atene del suo più grande discepolo, Platone, che portò la cura di sé in una direzione metafisica integrale, il messaggio e la missione di Socrate furono perfezionati da apporti misterici, fino ad essere elevati ad una dimensione divina perfetta.

Socrate, e con lui tutta la tradizione spirituale universale, indica nella medicina dell’anima ciò che guarisce dall’ignoranza, ciò che procura all’uomo il sommo bene, un bene che è incomparabilmente superiore, senza comune misura, rispetto a qualsiasi condizione del corpo. Se la medicina si occupa solo del corpo, non è più autentica medicina, perché la vera medicina è filosofico-religiosa, perciò cura l’uomo nel suo essere proprio e lo libera da qualsiasi soggezione alla contingenza, sia questa corporale o materiale, quindi dall’accidentalità e dalla morte, sotto qualsiasi profilo. Socrate è molto preciso, la vera medicina cura l’essere proprio dell’uomo, l’anima e non si occupa del corpo indipendentemente da questa cura, lo stesso deve fare colui il quale si occupa di uno stato alterato del corpo. Perciò non si deve tentare di guarire il corpo indipendentemente dall’anima, altrimenti al medico sfugge l’essenziale e trascura tutto ciò che bisogna curare innanzi, affinché lo stesso corpo sia posto nelle condizioni migliori: “… è questo oggi l’errore degli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente di una cosa e dell’altra, della saggezza [sophrosyne] e della salute [hyghieia]”[24].

Secondo la tradizione filosofica integrale, il filosofo è il vero medico, egli comprende nella sua azione sia l’anima che il corpo, in modo tale che, ristabilendo le condizioni della prima, restituisce il secondo alla sua situazione ottimale. Dunque l’anima è il soggetto centrale della salute e della malattia, la filosofia medica libera l’anima da tutto ciò che è per essa malignità, morbo, questa liberazione comporta l’ottenimento della salute, con la quale l’uomo, tutto intero, è risanato. Il filosofo medico non si correlaziona al medico del corpo, solo lui è il vero medico, perché senza sapienza non c’è salute e solo la filosofia conduce a sapienza. Nel Carmide Socrate afferma che l’anima è l’oggetto primario, se non esclusivo, di ogni cura e ad essa ci si rivolge con discorsi di verità, per liberarla dall’inganno e dall’oblio prodotti dalla sua associazione con il corpo. Dato che l’uomo è essenzialmente la sua anima, egli non può dedicare la sua esistenza alla cura limitata del corpo, perché per lui il bene consiste nell’attuazione della sua natura, perciò nel vivere secondo la dignità dell’anima, con sapienza e giustizia. Il falso medico si occupa esclusivamente del corpo, è impegnato esclusivamente a costituire la sopravvivenza del corpo in qualsiasi condizione morale o intellettiva l’uomo si trovi, così come l’uomo malvagio egli si attiene al sopravvivere indifferenziato, alla vita indipendente dalla bontà e dalla giustizia. L’uomo buono è colui che vive secondo il bene dell’anima, la vita buona è un prodotto esclusivo della sapienza, perciò l’uomo non vive bene senza la pratica della filosofia. È attraverso l’epekeina ontos che l’anima si prende cura di sé e volge ogni suo atto al suo bene, dunque alla vita buona.

Secondo il monito del Dio Apollo, di cui Socrate rappresenta una precisa presenza operativa fra gli uomini, il primo scopo a cui l’uomo deve dedicarsi è la conoscenza di sé, perché se egli non conosce se stesso non può curare se stesso. Questo è il problema essenziale, alla disciplina di autoconoscenza deve ordinare tutta la vita, in essa consiste la vera cura di sé, la sola che può attuare pienamente la natura dell’uomo. Fin dal principio del suo magistero, Socrate fa sapere che il Dio, che ha ammonito l’uomo alla conoscenza di sé e la cui sentenza è stata scritta sul frontone del tempio di Delfi, ben sapeva che la conoscenza di sé è una cosa difficile, non alla portata di tutti, perché l’autoconoscenza è quanto di più arduo l’uomo può attuare[25]. Già Talete diceva che la conoscenza di sé, tra tutte le cose, è quella veramente più difficile e, allo stesso modo, i pitagorici trattavano della disciplina che porta al gnothi sauton, γνῶθι σαυτόν. Nonostante la difficoltà, questa disciplina non può essere elusa, perché “… conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se ignoriamo, non lo potremo proprio sapere”[26].

Dunque se conosciamo noi stessi possiamo dedicarci alla epimeleia heautou e, in particolare, alla psyches therapeia, solo in questo modo potremo rimuovere tutto ciò che si è aggiunto all’anima, contro natura, al momento dell’incarnazione, gli elementi che impediscono il suo atto libero e la realizzazione della sua bontà. Dunque, che sia facile o meno, non vi è altra via per curare se stessi, bisogna procedere, in prima istanza, a conoscere se stessi. Ma l’uomo comune presume di conoscere se stesso, quando, in realtà, si ignora, inoltre, allo stesso tempo, ignora di ignorare, quindi si trova nella condizione peggiore per potere curare se stesso, infatti egli si cura sempre di altro da sé e perciò non fa mai il suo bene, impegnandosi per tutta la vita solo per alienarsi dal suo bene proprio[27]. Ciò che importa veramente è la conoscenza del vero sé dell’uomo, cioè il suo “essere” in se stesso, perché sull’ignoranza del vero sé dell’uomo fondano tutte le presunzioni di sapere e le false cure di sé. Nel migliore dei casi le cure procedono da una conoscenza relativa di sé, una conoscenza presente anche nelle false psicoterapie moderne e nella consulenza filosofica contemporanea, che presuppone erroneamente di rifarsi alla tradizione filosofica antica. Colui che ignora se stesso si trova nelle condizioni peggiori possibili, perché non può compiere alcunché di buono, qualsiasi cosa esso faccia. È dunque fondamentale sapere esattamente che cosa significa prendersi cura di sé:

“Ebbene, che cosa significa prendersi cura di sé, perché spesso, senza accorgersene, non ci succeda di trascurare noi stessi pur credendo di farlo? E quando un uomo si prende cura di se stesso? [auton epimeloumenoi]”[28] .

L’uomo si prende cura di se stesso quando si cura di ciò che è suo proprio oppure quando si cura di ciò che è suo in senso esteriore? Socrate conduce gradualmente Alcibiade a prendere atto che tutto ciò di cui ci occupiamo come altro da noi non è curarsi di noi. Dunque con un’arte ci si prende cura di sé e con un’altra ci si occupa di ciò che è altro da sé[29]. Socrate è molto esplicito, la cura di sé e la conoscenza di sé si identificano, perché dalla conoscenza di sé procede la cura di sé, perciò l’attività dell’autoconoscenza è primariamente ed eminentemente cura di sé, cioè propriamente attenzione al vero sé, da cui procede l’arte propria di “curare il sé”. Se non scopriamo chi siamo e rimaniamo nell’ignoranza di noi stessi, è impossibile curarci di noi stessi[30].

Il discorso di Socrate, attraverso una stretta dialettica, porta Alcibiade ad individuare colui che intellige, pensa, parla, sente, vuole, delibera, ecc., questo ente non è il corpo, non è nemmeno gli elementi che attengono alla sensazione corporea, né tutti questi supporti, perché egli li conosce tutti e ciò che conosce non è lo stesso del conosciuto, dunque si distingue in maniera precisa da tutti gli oggetti conosciuti.

E allora il vero sé, ciò che costituisce l‘identità permanente del soggetto, l’unità referente di tutti i veicoli e le operazioni è solo ciò che Socrate chiama psyche, perché ciò che afferma “io” non può essere il corpo, né l’insieme di anima e corpo, dunque solamente l’anima è veramente ciò che afferma “io sono”, il vero soggetto di ogni referenza in ogni atto del vivere immanente dell’uomo.

“Se, allora, non è uomo né il corpo, né l’insieme di corpo e anima, resta, credo, da concludere o che l’uomo non sia nulla, oppure che, se è qualcosa, non sia altro che anima”[31].

Dunque l’anima è il vero referente del dialogo che si svolge fra Socrate e Alcibiade, il dialogo avviene fra anime mediante i loro corpi ed è delle anime che ci si deve curare. Perciò l’uomo cura se stesso quando si cura come anima, invece erra nel curare se stesso quando si occupa del corpo o addirittura delle ricchezze, elementi che effettivamente non gli appartengono, né sono in suo potere, perciò non ha la possibilità di dirigere e comandare[32].

Tutto deve essere centrato sulla epekeina ontos, in funzione della psyches therapeia, il solo bene a cui l’anima deve dedicarsi, iniziando dalla sua autoconoscenza.

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[1] J. T. Mc Neill, A history of the cure of souls, New York, 1951, pag. 320.

[2]Szaz T. S., Il mito della psicoterapia, Cles (TN) 1982, pag. 46.

[3] Platone, Carmide, 156e-157a.

[4] Platone, Timeo, 86 b.

[5] Platone, Alcibiade Maggiore, 133 c.

[6] Ibidem, 133 b.

[7] Ibidem, 133 c.

[8] Platone, Carmide, 164 d.

[9] Ibidem, 164 e-165 a.

[10] Ibidem, 166 e.

[11]Ibidem, 167 a.

[12] Ibidem, 156e.

[13] Platone, Apologia di Socrate, 22.

[14] Ibidem, 29 c-30 c.

[15]Ibidem, 30 a.

[16] Ibidem 29 d.

[17] Ibidem, 29 d-30 c.

 

[18] Ibidem, 41 d.

[19] Platone, Fedone, 107 c-d.

[20] Ibidem, 107 d.

[21] Platone, Fedone, 107 d-c.

[22] Ibidem, 114 d-115 a.

[23] Ibidem, 115 b-c.

[24] Platone, Carmide, 157 b.

[25] Platone, Alcibiade Maggiore, 129 a.

[26] Ibidem, 129 a.

[27] Ibidem, 116 e -118 c.

[28] Ibidem, 128 a.

[29] Ibidem, 128 d.

[30] Ibidem, 129 b.

[31] Ibidem, 130 c.

[32] Ibidem, 131 c.

[Da: Viola L.M.A.,  Psyches Therapeia. La via di liberazione dell’anima dal male secondo la divina filosofia platonica]

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