Per Plotino, come abbiamo già visto, il male coincide con la Materia Prima, nella quale si concentrano tutte le negatività rispetto alle positività che si trovano nel Bene, ovvero la mancanza di misura rispetto alla Misura, del limitato rispetto al Limite, della forma rispetto alla Causa Formale. Questa Materia è sempre deficiente rispetto all’Essere, che basta sempre a se stesso, è sempre indeterminata e per nulla stabile rispetto alla perfetta stabilità dell’Uno, è completamente passiva, rispetto all’attività assoluta dell’Uno, insaziabile, manifesta una povertà assoluta rispetto alla pienezza dell’Essere Totale[1]. Il male si trova dunque sostanzialmente in qualcosa che è sempre indeterminato, qualcosa che non appartiene mai alla determinazione, alla misura, alla definizione e dunque è sempre qualcosa di illimitato[2]. Per Plotino il male non è sostanza[3], in effetti il male è solo “non essere”, è il modo originario del non essere e si trova presente in tutti gli enti altri rispetto all’Uno, perché ciascuno di essi partecipa del non essere originario.

In accordo con Parmenide, Plotino nega la possibilità di un’esistenza assoluta del non essere e dunque del male, a differenza di Parmenide però Plotino afferma la possibilità del non essere relativo, perché ammette l’esistenza necessaria di qualcosa che, almeno relativamente, non è, ma questa può essere solamente una questione di punti di vista. La prospettiva di Parmenide è propria di colui che vede ogni cosa secondo l’Essere Vero, dall’unità dell’Essere, che è assolutamente, tutto il non essere risulta essere illusorio, in quanto appare come accidente “sovrapposto all’essere”, ma, in quanto tale, non è che una illusione, prodotta da ciò che Parmenide dice essere la doxa. Colui che è dotato di vera episteme possiede l’aletheia, per la quale comprende che, anche ciò che appare come un male relativo, non avendo alcuna reale sussistenza, di fatto, non ha alcuna esistenza.

Ciò che appare come non essere, nel senso pieno, come elemento massimamente privativo, è la materia intesa nella sua primarietà, ovvero nello stato antecedente a qualsiasi distinzione, questa stessa materia va poi intesa come substrato della dimensione intelligibile e poi come il supporto del mondo sensibile. Abbiamo dunque tre stati della materia, una materia sovraintelligibile, una materia intelligibile e una materia subintelligibile, queste condizioni della materia presentano un maggior grado di indeterminazione, di smisuratezza e di inconsistenza caotica nella misura in cui si “allontanano” e si distinguono dall’Uno. In ogni caso, ciascun grado della materia è sempre caratterizzato da assenza e privazione, e allora la materia è substrato del male nei diversi piani dell’Esistenza Universale, in essa si trova sempre l’assenza relativa dell’Essere e la diversità dall’Uno, secondo diverse modalità e livelli. Occorre comunque aver presente che il non essere della materia non è mai assoluto, è un non essere relativo, ovvero è ciò che in riferimento all’essere è relativamente “altro”.

Plotino afferma chiaramente che il male è necessario, in quanto è intrinseco alla Possibilità Totale implicita nell’Uno, per la quale si costituisce il relativamente diverso dall’Uno e, dunque, ciò che non è Uno. Nelle diverse gradazioni dell’Esistenza sussiste, con diversa intensità e qualità, la privazione dell’Uno e quindi una certa, quanto necessaria, espressione del male, fino ad arrivare al substrato infimo dell’intera manifestazione, al fondo di tutte le cose, all’indeterminazione più radicale, nella quale si trova lo sfinimento della presenza dell’Uno e del Bene. La materia abissale del Tutto ha la funzione di negare, nella forma più completa possibile, l’Uno, l’Essere, in essa lo sfinimento tende, senza mai raggiungerlo, al non essere assoluto. Plotino non chiarisce in maniera precisa la differenza che esiste fra il male, inteso nella sua integralità, e il male relativo, viene dato per certo che non esiste un male assoluto e poi, in riferimento agli enti relativamente determinati, egli afferma: “Il male non consiste in una deficienza parziale, ma in una deficienza totale del bene; ciò che manca di un po’ di bene non è cattivo, ma può essere anche perfetto almeno nel suo genere. Ma quando la deficienza del bene è assoluta, come è della materia, allora il male è vero, privo di qualsiasi parte del bene. La materia non ha l’essere in modo da partecipare del bene: solo equivocamente si dice che essa “è”, poiché è giusto affermare che essa non è”[4]. Non è possibile seguire interamente Plotino in queste affermazioni. Egli dice che è male ciò che presenta una carenza totale del Bene, ma nemmeno la materia, intesa nella sua radicalità ultima, non è un non essere assoluto, quindi anch’essa non manca totalmente del Bene e, a suo modo, partecipa di Esso. La materia rappresenta ciò che, nella totalità delle possibilità esistenziali, costituisce la possibilità della più completa negazione relativa, e non assoluta, dell’Essere, o dell’Uno, una negazione che non può essere totale, perché è un’impossibilità, da tutti i punti di vista. La materia è dunque il male nella sua totalità, ma il male non può mai essere assoluto, perché, in quanto apparenza e relativa insussistenza, viene trasceso dalla realtà assoluta dell’Uno-Bene.

Inoltre va detto che, se in un ente determinato manca un po’ di bene, esso partecipa un po’ del male, e quindi è parzialmente cattivo. Per quanto riguarda il suo essere relativo un ente può anche essere perfetto, ovvero può essere completamente in atto, quindi, rispetto a se stesso, può essere privo del male, ma in senso assoluto il suo atto non coincide con l’atto totale del Bene, dunque ogni ente determinato accoglie un grado relativo di male, metafisico, ontologico, psicologico, ecc., a seconda del luogo che occupa nella scala dell’esistenza. Perciò è possibile che si costituisca una presenza relativa del male nelle cose del mondo e nell’anima dell’uomo, la quale, a seconda della composizione costituita dal Demiurgo e dagli Dei secondari, presenta una maggiore o una minore inclinazione al Bene, pure essendo in se stessa partecipe del Divino, è la mescolanza con il non divino che ne definisce i caratteri e le tendenze non univocamente orientati al Bene.

Quando l’anima viene immessa nell’alterità, e poi viene associata alla corporeità, fa esperienza del male in diverso grado e modo, ma, se gli è dato, essa avvia un processo di liberazione dal male, che comporta la realizzazione di gradi progressivi di unificazione, fino a realizzare l’unità perfetta o la henosis, che stabilisce l’anima nell’Identità Suprema propria dell’Uno. Il male primario dell’anima è l’ignoranza, a causa della quale essa si trova a compiere il male credendo di compiere il bene. Nel subire la catabasi l’anima viene posseduta dal male contro la sua volontà, fino al punto in cui prende atto del suo stato maligno e dà avvio ad una completa conversione del suo essere e dei suoi atti all’Uno. Una volta determinata la sua volontà nel senso del Bene, l’anima può prendere in mano gli atti delle sue facoltà, per cercare di dominare qualsiasi tendenza al male, così si autodetermina come soggetto morale responsabile delle proprie scelte. In quanto ente determinato e condizionato, l’anima opera in se stessa quello che è stato predeterminato all’origine in lei, quindi, i suoi atti le sono propri nella misura in cui sono conformi a quanto è stato predeterminato dalla Provvidenza Divina, così come gli atti che gli attori compiono a teatro, i quali agiscono sempre secondo il piano predeterminato del regista. Dunque il bene e il male non dipendono dalle scelte attuali delle anime, esse si esprimono nelle loro azioni secondo il loro carattere, che è stato definito originalmente all’atto della determinazione della loro natura o al momento dell’assegnazione del loro demone, il quale domina le loro scelte durante tutto il corso della loro vita[5]. Perciò l’anima è, in ogni sua manifestazione esistenziale, ciò che già era in principio, allo stesso modo in cui gli attori sono quelli che sono già prima del dramma che recitano. Il carattere dell’anima esiste prima del corpo, ed essa ha già scelto, prima che si costituisca la vita corporea, quale sarà il suo indirizzo di esistenza, dunque l’anima non diventa quaggiù buona o cattiva[6], ma quaggiù si compiono la bontà o la malvagità prestabilite. Secondo Platone e Plotino, quanto si determina in questo mondo è già stato predefinito, si nasce già buoni o malvagi, o meglio, inclinati alla bontà o alla malvagità, per una scelta prenatale dell’anima.

All’origine della sua costituzione iperurania l’anima è buona, poi nel corso dell’esistenza può dimenticare se stessa assimilandosi al corpo, così accoglie il male e diviene malvagia, perché “la vita nel corpo è un male di per sé”[7], poiché il corpo fa cadere continuamente l’anima nell’impurità dell’alterità e l’assoggetta al dominio dei desideri carnali, facendole perdere ogni libertà, così essa vive dominata dalla materia e la sua natura non può mai essere espressa adeguatamente. Plotino non attribuisce mai una responsabilità individuale assoluta all’uomo, rispetto agli atti che compie, secondo Plotino la disposizione dell’anima non determina una responsabilità diretta nella vita presente, dato che questa disposizione deriva da vite anteriori. Se poi l’anima non acquisisce la consapevolezza della sua predeterminazione, tutta la sua esistenza avviene secondo ciò che è stabilito in modo totalmente passivo, in definitiva non esiste per l’uomo comune una responsabilità assoluta degli atti che compie, in quanto è da ritenere assurda una sua iniziativa perfettamente libera, per la quale esso può determinarsi secondo il bene o il male, indipendentemente dalla predisposizione della Provvidenza e quindi anche dal Fato Universale.

Plotino fa queste affermazioni sull’uomo perché ha una precisa concezione della Giustizia Divina e quindi della teodicea. Nel suo insegnamento egli dice che prima del cosmo sussiste il solo Intelletto Divino e la Sua Provvidenza, ma, con la costituzione del cosmo, l’Intelletto di Dio entra in relazione con la Materia del Mondo attraverso il suo Logos, rendendo possibile la costituzione del mondo temporale. Ma, se il Logos Divino domina completamente la Materia, e la ordina costituendo l’equilibrio e l’armonia della totalità, servendosi dei contrari per comporre nell’unione il contrasto e la com­pletezza dei possibili, non è lo stesso per il logos di un ente che “è nel Mondo”, ed è perciò costituito da un misto di ragione e materia, perché esso sussiste nella polarità della tensione intramondana, diviso fra una tendenza all’ordine razionale, al bene, e a una tendenza al disordine irrazionale, al male. Gli enti costituiti nel mondo partecipano in diverso grado alla Ragione o alla Materia, come tali sono caratterizzati da maggiore o minore razionalità e dunque da maggiore o minore partecipazione alla provvidenzialità, al bene, e di conseguenza alla giustizia.

Nel mondo la tensione polare dei contrari e i conflitti degli opposti sono ineludi­bili e gli apparenti mali, relativi e contingenti, esistono in funzione del bene unitario e trascendente. È il Re del Mondo, Zeus o Ivppiter, che collega tutto nell’ordine finale con la Sua Giustizia e nulla può essere mutato dall’anima individuale determinata, dal logos personale immerso nel piano di Dio. Se al singolo uomo si presenta “il male”, che viene reputato “negativo” per chi lo soffre nel corpo e nell’anima, questo “male” compare in obbedienza alle Leggi dell’Ordine Universale, secondo le quali il male relativo e apparente è sempre un bene se considerato nell’unità trascendente del Tutto, perché è opera della Giustizia Divina Perfetta e ha il suo giusto posto nell’ar­monia e nella bellezza dell’universo.

Il dramma del mondo non va biasimato, non tutti sono eroi fortunati e felici, per­ché nella rappresentazione universale vi sono diverse parti che si devono svolge­re, perciò vi sono uomini buoni e felici, ma anche uomini stolti, viziosi, rozzi e maligni[8], tutte le esistenze vanno comprese secondo l’essenza universale del loro svolgersi, e ogni esistenza rispetta una legge perfettamente giusta. È fondamentale comprendere che ciò che è coinvolto nella causalità esteriore e intramondana è solo il composto, la persona psicofisica contingente, connessa alla concatenazione delle cause seconde, ma il vero uomo, l’anima divina, l’intelletto increato, l’attore reale, rimane in sé impassibile. L’identità essenziale dell’uomo non è la maschera-persona, non è la parte o il ruolo che il soggetto deve recitare, è errato identificare il “noi”, la nostra identità, alla figura che assumiamo o al gioco del mimo, paignion, che svol­giamo, perché poi si piange come un fan­ciullo irrazionale se si modifica la sequenza delle proiezioni della rappresentazione gio­cosa in un senso sgradito all’anima illusa. L’anima deve distaccarsi e sciogliersi dalla mescolanza con la sua maschera sensibile, deve costituirsi nella visione intellettuale separata dal corpo e dai processi psichici, deve cessare di essere soggetta a illusione, deve finirla di scambiare il divenire per realtà, piangendo o lamentandosi per cose illusorie, per mali apparenti inesistenti. Se l’anima si libera dall’associazione alienante coi suoi veicoli, fino a svelare la sua identità essenziale con Dio, inteso come Essere Intelligibile, vedrà che nulla è come l’ignoranza del reale fa apparire che sia, essa non vedrà più le cose secondo l’apparenza illusoria, ma secondo la loro realtà in Dio, perciò saprà che non vi è nulla che sia realmente “male”, che non vi è nessuno che realmente soffra, né nessuno che goda, ma vi è solo Dio e la Sua Presenza Divina in tutti gli enti. Le anime degli enti sono immagini di Dio, perciò vanno considerate come sperimentatori accidentali delle molteplici esperien­ze esistenziali possibili, le quali hanno sempre e solo una realtà, Dio, il quale perma­ne trascendente a tutte le sue proiezioni e le contempla nell’unità della Sua Essenza, perfettamente quieto e beato, equanime e impassibile.

Affinché l’anima si stabilisca nella visione divina immutabile ed eternamente beata, che comprende in sé tutte le determinazioni apparenti dell’Essenza Divina, occorre che prima si innalzi sul corpo e poi si separi da esso e dall’accidentale iden­tità titanica che esso produce. Successivamente si deve separare anche dalla discorsività relazionale e coscienziale, ad ogni livello, per attuarsi come intellezione completamente distinta e separata dalle determinazioni psicofisiche. Infine l’anima deve risolversi in Dio, presenza eterna trascendente di tutte le presen­ze contingenti e determinate, l’Essere Reale di tutti gli enti dispiegati nell’apparenza. Il Sommo Regista della grande rappresentazione universale immane in Tutto, attra­verso la sua riflessione nelle anime individuali appare come l’attore di ogni singola parte, ma Egli dirige la scena del mondo e, allo stesso tempo, recita tutte le parti del mondo, in ogni ruolo, in ogni parte, dietro ad ogni maschera non vi è che Lui, Dio. Il singolo attore deve recitare la sua parte come Dio la recita, perché egli è Dio secondo quel modo immaginale e immanente, in effetti deve sapere che, in realtà, non c’è altro che Lui[9]. Cosicché la liberazione completa da ogni soggezione al mon­do e all’illusione del male può essere attuata e fruita nel gioco del mondo, come ha mostrato il Dio Saturno alle origini auree dell’umanità, uno stato di perfezione presente anche nel Divino Imperatore Augusto, reso evidente nelle parole che egli ha pronunciato poco prima di rendere il suo spirito.

 

[1]  Plotino, Enneadi, I, 8,3.

[2]Ibidem.

[3]Ibidem.

[4]Ibidem, I, 8, 5.

[5]Ibidem, III, 4, 3.

[6]Ibidem, III, 4, 5.

[7]Ibidem, III, 7, 3.

[8]Ibidem, III, 2, 11.

[9]Ibidem, III, 2, 17, 30.

 

 

(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. I)

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