
Nell’uomo, che riunisce in se tutti gli stati dell’Essere, esistono diversi livelli di determinazione delle facoltà della sua essenza, e dunque delle relative attività, per le quali viene dispiegato un relativo tipo di appetito: quello vegetativo, quello sensibile, quello arditivo, quello razionale, quello intellettivo. Nella prassi realizzativa, le facoltà latenti nell’essenza dell’uomo vengono attualizzate, in tal modo si definiscono gradi di dignità via via crescenti, una maggiore partecipazione all’Essere e all’Unità, e dei livelli superiori di appetito, di amor-eros. Quando l’ascesi porta in atto l’intelletto, l’appetito intellettivo si volge volontariamente all’Essere determinato secondo l’Essenza, perciò si orienta alla realizzazione del Bene inteso nella forma partecipabile da un intelletto finito. Quando tutti gli appetiti relativi sono stati estinti, si costituisce l’ultimo tipo di appetito, allora un amore univoco per il Bene reale, infinito e perfetto, si stabilisce, così è possibile risolvere anche l’ultima attività relazionale in quell’atto assolutamente autosufficiente e unitario che si identifica con l’Uno stesso. Sappiamo che solo nella completa henosis l’anima trova l’estinzione e, dunque, il compimento di ogni suo appetito, quindi, nella perfetta unificazione, che si realizza attraverso la completa purificazione da tutto ciò che è molteplice, mutevole, alterato e limitato, ogni pena viene completamente trascesa. Così l’essere dell’anima, liberato dalla determinazione dell’essenza può consistere esclusivamente in se stesso, ossia nell’Essere Plenario, senza alcuna determinazione, il Solo nel quale non sussiste alcuna privazione, soggezione al male o sofferenza, per cui si comprende il realizzato che, stabile nell’Uno, afferma che al di fuori dell’Identità Suprema tutto è male, dolore o illusione. Con la purgazione completa da ogni mutevolezza e da ogni molteplicità, l’anima si risolve dapprima nella sua unità e nel suo bene proprio, poi rinuncia a questo bene limitato e attinge all’Unità Divina Essenziale, infine trascende anche questa stazione per svelare l’Unità Divina Suprema, nella quale si trova la sua reale natura ultima e dunque anche il suo vero bene assoluto.
Per l’anima non è sufficiente essere “buona” o attuare la sua essenza determinata, ma, al di là del fatto di essere nel Bene, è per lei più importante raggiungere il termine finale di ogni suo amore, ossia essere il Bene[1]. Volto al di sopra di tutti gli appetiti, tesi a presunti beni, l’intelletto, completamente separato e convertito al suo fondamento, ripiega il suo atto su ciò che costituisce il Bene Essenziale, una volta stabilito nell’identità-quiete dell’Essenza, esso si dispone in modo amante nei confronti di ciò che è al di là della stessa sussistenza ontologica e costituisce la perfezione infinita dell’Essere. Avendo cessato di orientare la sua volontà in senso temporale, l’anima che è giunta all’apice della sua purificazione presenta in se stessa un’inclinazione esclusiva ed immediata verso il Dio Supremo. Essa non trova più soddisfazione in nulla se non in Quello, tutto è stato abbandonato e trasceso, perciò è stato privato di ogni appetibilità. Solo il divino gaudio plenario, che può venire dalla contemplazione infinita dell’Uno diviene l’ultimo termine estremo del Bene cui tendere.
Prima che la volontà si unifichi completamente all’intelletto, essa si muove di oggetto in oggetto, questi, per quanto possano essere prefigurazioni del vero bene, sono di rango secondario, terziario, quaternario, ecc., rispetto ad esso, perciò la volontà non può mai essere completamente riempita da oggetti finiti che non coincidono con l’oggetto finale di ogni suo tendere. Una volta lasciata l’inquietudine presente nella fruizione degli oggetti relativi e illusori, pregustando ormai la fine della sua agitazione e del suo moto, l’anima lascia la tendenza senza riposo che vaga da un oggetto all’altro e mira esclusivamente alla quiete della henosis, alla statuizione nella perfetta Identità Divina Suprema, nella quale si costituisce uguale alla totalità infinita dell’Uno, per essere solo il Bene e per possedersi come il Bene possiede Se Stesso. Quando la volontà dell’anima viene completamente orientata al solo vero Bene, raggiunge la perfetta rettitudine, quando questa volontà viene pienamente soddisfatta si estingue nel Principio che l’ha costituita, questa è la fine di ogni suo tendere alla Quiete dell’Essere Infinito, il Solo che può veramente saziarla, senza ulteriorità, in definitiva possiamo dire che volvntas in solo primo et immenso qviescit bono. Solo la perfetta integrazione nel Bene, raggiunta per identificazione ad esso mediante l’ascesi conoscitiva e la semplificazione sovraessenziale, sazia perfettamente l’anima togliendole il limite e rendendola Essere; in tal modo la pena, la sofferenza e la mancanza di ogni tipo, vengono risolte. Attingendo alla conoscenza infinita dell’Essere, l’essere dell’anima si distacca dalla sua limitazione e la trascende, così va a coincidere con la stessa natura dell’Uno e dunque con la Beatitudine Infinita dell’Assoluto.
[1] Platone, Epinomide, 992b.
(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. II)
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