
Per comprendere meglio il ruolo dell’azione e della pratica delle virtù, in vista dell’acquisizione della conoscenza suprema, e bene approfondire ciò che costituisce la dinamica della conformazione, e poi quella dell’assimilazione, che l’anima affronta nell’ascesa al Bene.
E qual è il modo di agire di chi è amico e seguace del Dio? Uno e uno solo, quello che si esprime in questa antica massima: che il simile è amico del simile, purché sia secondo misura, perché le realtà prive di misura non solo non si attraggono fra di loro, ma neppure sono attratte da quelle dotate di misura. E per noi è Dio la somma misura di tutte le realtà, assai più che non lo sia l’uomo, come qualcuno va sostenendo. Ora, se uno vorrà diventare amico di un essere così sublime, bisogna che quanto più è possibile si faccia simile a lui. E sulla base di tale principio possiamo ben affermare che chi fra di noi è temperante è amico di Dio, proprio perché è a lui simile, mentre invece chi non è temperante è, rispetto a Dio, dissimile e difforme e, per questo, ingiusto. E lo stesso dicasi per tutti gli altri caratteri[1].L’ascesi nella conoscenza filosofica richiede uno stato reale dell’anima, chi vuole conoscere l’Essere, la Verità, Dio, deve assimilarsi ad essi sostanzialmente, non è certo la rappresentazione speculativa della ragione titanica che conduce alla sophia divina e alla liberazione dal male, occorre invece un completo adeguamento dell’anima all’oggetto della conoscenza, affinché essa si unifichi ad esso. Se il filosofo non pratica e non realizza le virtù, la sua disciplina rimane sterile e vuota e non conduce a nessun bene effettivo. Dunque, l’autentica via filosofica presuppone un’inscindibile unione fra prassi morale e prassi conoscitiva, non può darsi una vera conoscenza ontologica del Divino se non si possiede la stessa virtù, lo stesso stato morale degli Dei o di Dio. Perciò l’imitazione, attraverso la conformazione prima e l’assimilazione poi, permette di adeguarsi sostanzialmente al Divino, occorre agire come gli Dei, se ci si vuole elevare alla dimensione, alla dignità degli Dei; senza essere il Dio, non si conosce il Dio, l’Uno, “… senza la virtù vera Dio non è che un vuoto nome”[2]. Questa impostazione è la sola retta, la pratica della virtù fonda su di essa, perché la vera virtù è innanzitutto conoscenza e la conoscenza perfetta richiede una virtù perfetta. Il vero praticante la via divina sceglie la vita filosofica, il bios theoretikos, in ogni aspetto si attiene all’imitazione di Dio, al seguire Dio, così l’anima tutta si compenetra di misura e giustizia[3], perciò lascia tutto ciò che riguarda la comune vita del volgo bestiale e compie una condotta tutta misurata da Dio. Tutta la sua azione viene sottratta dall’illusione di essere un agente individuale libero, ogni facoltà dell’anima viene ricostituita nella tensione alle facoltà divine da cui esse dipendono strettamente.
“Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime, nessun fulgore è presente nelle immagini di quaggiù. Ma solo pochi, mediante gli organi oscuri, avvicinandosi alle copie, a mala pena vedono l’originario modello che è riprodotto in quelle copie. «Invece, allora, la Bellezza si vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione e contemplazione, mentre noi eravamo al seguito di Zeus ed altri erano al seguito di un altro degli dèi e ci iniziavamo a quella iniziazione che è giusto dire la più beata, che celebravamo, essendo integri e non toccati dai mali che ci avrebbero aspettato nel tempo che doveva venire, contemplando nell’iniziazione misterica visioni integre, semplici, immutabili e beate, in una pura luce, essendo anche noi puri e non tumulati in questo sepolcro che ora ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l’ostrica. «Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio che abbiamo delle cose di allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. «Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. «Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile. «Dunque, chi non è di recente iniziato, o è già corrotto, non si innalza prontamente di qui a lassù, verso la Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso nome. Di conseguenza, guardandola, non la onora, ma, dandosi al piacere come un quadrupede che cerca solo di montare e generare figli, e, abbandonandosi agli eccessi, non prova timore dietro ad un piacere contro natura»[4].Nella Vita di Plotino Porfirio narra che Amelio, che “… era amante dei sacrifici e non tralasciava alcuna cerimonia della luna nuova e nessuna festa, un giorno volle condurre con sé Plotino, ma questo gli disse: “Devono essi [gli Dei] venire a me, non io a loro”. Che cosa intendesse dire pronunciando queste parole così fiere, noi non potemmo comprendere e neppure osammo interrogarlo”[5]. Plotino parlava dallo stato di chi ha almeno compiuto per una volta l’estinzione enstatica dell’anima nell’Identità Divina Suprema, egli si è conosciuto perfettamente, le sue parole si riferiscono all’identità trascendente dell’uomo, che coincide con l’Uno superiore a tutte le forme determinate degli Dei, a cui Amelio si rivolgeva attraverso riti religiosi formali e relazionali. L’Uno è superiore a tutti i gradi determinati della manifestazione apparente del Divino Supremo, colui che, come Plotino, almeno alcune volte si è stabilito nella aplosis-henosis, pur senza fissarsi in essa definitivamente, conosce la sua reale natura e perciò afferma che sono gli Dei che devono venire a Lui e non è Lui che deve andare a loro, intendendo per Lui l’Uno e non l’anima determinata, chi compie questa confusione produce il ribaltamento titanico dell’ordine delle cose e della verità. Chi dice “non io a loro” non è il Plotino transeunte, non è l’io presente al misto psicofisico corruttibile, ma è l’io risolto nell’Uno, con queste parole si esprime colui che ha realizzato, la stabilità definitiva nell’Identità Divina Suprema, ma anche colui che ha realizzato l’aplosis in modo non ancora stabile e definitivo può parlare delle sue enstasi temporanee e della certezza del suo essere Uno. Colui che ha ormai svelato l’Identità Divina Suprema, che trascende il Tutto, e perciò anche tutti gli ordini degli Dei determinati e la dimensione del Primo Dio Intelligibile, sa di essere Uno e quindi si esprime come ciò che sta oltre i molti Dei e anche oltre il Dio unitario determinato. Plotino, come risulta dai suoi stessi discorsi[6] e da quelli di Porfirio[7], non è però un realizzato divino integrale, egli ha “contemplato” l’Uno risolvendosi nell’Identità Suprema alcune volte, perciò parla per “esperienza”, “l’esperienza” della conoscenza divina di Sé fatta in più occasioni. La soluzione dalle determinazioni che egli ha prodotto non è stata però definitiva, perciò egli è “ridisceso” nel corpo e ha contemplato in modo differito, inoltre, come ha detto Porfirio, dopo la morte Plotino è stato accolto “solo” nel coro dell’immortale Eros come “demone beato”, per fruire, in modo duale, delle delizie paradisiache. In ogni caso, in virtù delle sue “esperienze” enstatiche, non poteva più approssimarsi agli Dei secondo il modo di colui che si rivolge ancora agli Dei con una disposizione di carattere subordinato e relazionale. Amelio si trovava in un altro punto dell’ascesa filosofica rispetto a Plotino, per lui vi era ancora ragione di compiere determinati sacrifici formali esteriori e di svolgere atti di pietas verso gli Dei determinati, mentre Plotino aveva conseguito, almeno in certi momenti, la liberazione da ogni stato determinato dell’Essere, perciò per lui non vi era più motivo di svolgere alcun tipo di pietas relativa e condizionata, secondo il modo della subordinazione gerarchica. L’anima di Plotino era entrata all’interno del penetrale del Dio Supremo e si era svelata identica ad Esso, poi, ridiscendendo nel corpo, aveva agito come la presenza immanente del Dio nel mondo. Egli aveva lasciato dietro di sé le “statue”, le forme intelligibili determinate del Divino, ossia gli Dei, che si incontrano nell’ascesa prima di realizzare l’Identità Divina Suprema propria dell’Uno. Quando egli si è ricostituito nella sua essenza determinata come anima, uscendo dall’enstasi, le “statue” degli Dei secondi sono state le prime che gli si sono fatte incontro[8]. Accedendo alla superiore henosis, allo scopo ultimo del suo agire secondo Porfirio, Plotino aveva trasceso la dimensione della uni-molteplicità del Divino e lo stato degli Dei relativi, perciò non era più lui che doveva andare a loro, ma erano essi, gli Dei determinati e intelligibili, che dovevano andare a lui, perché lui aveva preso atto che aveva uno stato dell’essere superiore al loro[9]. Plotino insegnava anche che lo scopo dell’uomo non è semplicemente quello di essere senza “peccato”, né quello di essere solo un “uomo buono”, ma il suo vero scopo è quello di essere in atto secondo la sua natura divina suprema, dunque essere Dio è il vero fine dell’uomo[10]. Plotino ha ben descritto la via platonica che ha percorso per ottenere il suo risultato realizzativo, egli ha indicato che cosa deve essere compiuto per ottenere la perfetta realizzazione metafisica, la semplificazione, aplosis, e l’unificazione, henosis, dell’anima con l’Uno, fino alla sua perfetta identificazione con il Dio Supremo. La via filosofica che consente di realizzare la perfetta salute-sapienza ha il suo fondamento nella disciplina delle virtù, solo la quale consente di separare completamente l’anima dal corpo, attraverso una purificazione completa dalla vita sensibile. Nella polemica contro gli gnostici cristiani Plotino ha ben specificato che, se non si praticano e realizzano le diverse virtù, la visione di Dio, e ancora di più l’unione estinguente con Esso, non sono possibili:
“Ci sono due dottrine riguardanti il conseguimento del fine: l’una pone il fine nel piacere del corpo, l’altra preferisce l’onestà e la virtù; il desiderio che ne sentiamo viene da Dio e ci riunisce a Lui; altrove vedremo come Epicuro negando la Provvidenza consiglia di ricercare il nostro soddisfacimento nel piacere, unica cosa che ci rimanga. Ma la dottrina di costoro è ancor più temeraria poiché offende il Signore della Provvidenza e la Provvidenza stessa e oltraggia tutte le leggi del nostro universo, getta il ridicolo sulla virtù della temperanza, da tanto tempo onorata, e per non lasciare al nostro universo nessuna cosa bella, elimina la temperanza e insieme la giustizia innata nelle anime e perfettibile mediante la ragione e l’esercizio: distrugge insomma tutto ciò per cui l’uomo può diventare saggio. E così a loro non rimane che ricercare il piacere, pensare a se stessi, fuggire la società degli altri uomini e pensare solo al proprio interesse, a meno che qualcuno di essi non sia per natura superiore a tali dottrine: per essi non v’ha più nessun fine onesto, ma qualcosa d’altro da perseguire. Eppure, a loro già possessori di una «conoscenza», non occorreva che partire di qui per proseguire; e proseguendo essi avrebbero raggiunto gli esseri primi poiché essi procedono da una natura divina: appartiene a tale natura intuire ciò che è onesto, poiché essa disprezza i piaceri del corpo. Ma coloro che non partecipano della virtù non possono certo anelare alle cose superiori. Né è prova il fatto che essi non hanno mai formulato una dottrina della virtù, ma l’hanno del tutto trascurata; non dicono né ciò che essa è, né quante sono le sue parti, ignorano quanto di bello hanno scritto su ciò gli antichi, non <dicono> come <la virtù> si acquisti e si possegga, né come si guarisca e si purifichi l’anima. Non basta dire: «Guarda a Dio», se poi non s’insegna come si debba guardare a Lui. Che cosa impedisce infatti, potrebbe dire qualcuno, di guardare a Dio senza astenersi dal piacere o senza reprimere l’ira, di ricordare continuamente il nome di Dio, pur rimanendo soggetto al dominio di ogni passione e senza far nulla per liberarsene? Soltanto la virtù progressiva interiore all’anima e accompagnata dalla prudenza ci rivela Dio: senza la virtù vera Dio non è che vuoto nome[11].L’Uno trascende assolutamente sia il moto che la stasi, inoltre in esso la Realtà non duale esclude la distinzione di un agente determinato, sia esso universale o individuale, e se l’Uno è la vera identità dell’uomo la percezione dell’agente individuale relativo “libero” di agire deve essere trascesa e risolta una volta per tutte. Se si osservano le cose dall’Uno, l’azione, a tutti i livelli, risulta illusoria, perciò si pone il problema di affrontare la risoluzione dell’illusione dell’azione determinata senza però agire, in quanto si ricadrebbe nella stessa illusione senza mai uscirne, la rinuncia all’azione è comunque indispensabile e perciò deve essere realizzata. L’azione dell’individuo afflitto dall’illusione di essere l’agente attivo dei suoi atti deve essere superata, l’assimilazione all’azione esteriore non permette di accedere ad uno stato che rivela l’illusione dell’azione, allo stesso modo che l’illusione del divenire, dell’alterità, della molteplicità non può essere risolta usando mezzi o azioni che rimangono nel piano di quell’illusione. L’esistenza condizionata non è che un insieme di livelli di malia e illusione, la liberazione enstatica richiede la separazione e il distacco da tutti i livelli determinati dell’ignoranza-illusione, a partire dalla trascendenza dell’azione corporea esteriore e dal superamento dell’illusione dell’agente attivo separato. Per questo motivo il primo centro della disciplina va subito posto in ciò che, nell’uomo transeunte, è già oltre l’azione esteriore, sia quella del corpo che quella dell’anima, è il soggetto egemonico incosciente che deve essere enucleato per primo e deve essere posto in uno stato per cui egli affronta l’azione a partire dalla conoscenza che trascende l’agire psico-fisico esteriore. Conoscere l’azione secondo verità, secondo l’essere, è già porsi nella trascendenza dell’azione, vederne la relatività e la sua dimensione legata al divenire e all’illusione è fondamentale, questa visione avvia il distacco dall’agire esteriore ed estingue la brama dei suoi frutti illusori. Se l’anima acquisisce la disposizione cognitiva dovuta, può affrontare l’azione esteriore per liberarsi dall’azione, affinché l’anima possa attuarsi nella pura conoscenza oltre ogni divenire e poi possa risolversi nell’Uno prima di ogni determinazione, alterità, impermanenza e illusione. Per colui che cammina nella via apollinea della Salute Integrale anche il soffermarsi sul rispetto della Giustizia Divina, secondo i modi dell’asservimento illusorio dell’agente, è improprio, per cui anche l’aderenza a Fas, Themis o Dharma, senza lo stato dovuto, porta a perpetuare l’illusione dovuta alla ignoranza metafisica della Realtà che trascende ogni azione. La completa osservanza della Legge Divina, che comporta la totale estinzione della volontà individuale in quella universale, perfeziona la pietà religiosa e porta alla completa purificazione dall’illusione che esista un agente individuale e che abbia una sua completa libertà di azione. Questo elevato risultato dell’ascesi non consente però di superare l’illusione relativa all’azione divina universale, che viene attribuita all’Agente Universale, al Primo Dio, da cui tutta l’esistenza dipende. L’azione pia può essere svolta secondo tre modalità, considerando Dio come altro dall’anima, considerando Dio e l’anima come due stati dello stesso Essere Divino, considerando Dio e l’anima come un identico essere nella Realtà Suprema. A questi tre modi della pietà religiosa seguono tre risultati diversi, relativi ai gradi di purezza o consistenza nell’essere delle azioni pie. In ogni caso l’azione pia, che in quanto tale è virtuosa e giusta, raggiunte diversi livelli di unione-pace a seconda del grado di purificazione dell’anima presente nel soggetto religioso. La pietà elementare è praticata da un’anima che è priva dell’illusione tipica dell’anima empia, la quale crede di possedere una libertà propria, indipendente dall’Onnipotenza di Dio. La retta assunzione dell’azione esteriore, in funzione della sua trascendenza, deve impegnare l’anima a purificarsi dall’azione, fino a raggiungere gradi di liberazione dal suo coinvolgimento nel divenire equivalenti a precise virtù. Se non si acquisiscono realmente, e non astrattamente, precisi gradi di virtù, come Plotino precisa fermamente, non è possibile accedere alla conoscenza liberatrice e alla realizzazione della perfetta salute. La disciplina rigorosa delle virtù deve staccare l’anima dalla contingenza del divenire e dall’illusione dell’agente individuale separato, le virtù inferiori, quelle morali e civili, preparano l’anima alla separazione dal corpo e al superamento dell’azione esteriore vincolata al composto, solo dopo aver raggiunto questi risultati l’anima può accedere alla corretta disciplina dialettica che conduce alla liberazione finale. Se l’anima non raggiunge la perfezione che viene dalla pratica delle virtù, non è possibile che essa intenda correttamente le dottrine che riguardano la Realtà Divina e i modi di accedervi, pertanto certi insegnamenti non andrebbero diffusi agli impuri, perché li fraintenderebbero e assumerebbero una condotta deviata. Fintanto che l’anima non si è resa impassibile e perfettamente tranquilla, per via della purificazione da tutte le passioni che vengono dalla vita corporea, un risultato che si ottiene anche osservando rigorosamente la Legge Religiosa, praticando gli uffici religiosi e tenendo una condotta morale e civile impeccabile, non potrà né pregare nel modo veramente corretto gli Dei, secondo la regola della pura azione sacrificale, né tantomeno potrà elevarsi agli Dei attraverso la conoscenza liberatrice. La via filosofico-religiosa prevede una fase iniziale dedicata all’eliminazione di ogni forma di hybris-svperbia, che è il segno più evidente della più grande ignoranza e della peggiore illusione, perciò la disciplina morale purificatoria deve essere assunta in toto, convertendo tutta la vita ad essa, fino a che ogni traccia di superbia e di difformità a Dio viene risolta, questa è la base della vera pratica della filosofia e della religione, altre indicazioni sono vuote e vanitose, parole che illudono e inorgogliscono i creduli. All’anima dell’uomo, in quanto ente mediano, sono proprie determinate virtù, che però sono solo “conformazioni a Dio”, non vera somiglianza, perciò “noi”, se ci limitiamo ad identificarsi all’anima razionale, riguardo a determinate virtù, come quelle morali e quelle civili, non siamo immediatamente simili a Dio, però “…nulla impedisce che noi diventiamo uguali a Lui con le nostre virtù proprie, anche se Egli non ne possiede [in modo determinato]”[12]. Attraverso l’elevazione progressiva nella prassi filosofica l’anima passa dalle virtù psichiche a quelle noetiche, così si innalza dalla conformazione, che ha un carattere psichico, alla somiglianza, che è di tipo intellettivo-spirituale, a Dio, per realizzare infine l’uguaglianza, quando viene realizzata l’henosis inferiore, l’unificazione essenziale, infatti “…bisogna vedere sin dove ci conduce la purificazione [attraverso la pratica della virtù]: così soltanto vedremo a chi diventiamo simili per la virtù e a quale Dio identici”[13]. Secondo Plotino, l’ascesa dell’anima non deve arrestarsi allo stadio della completa separazione dal corpo, pur essendo questo risultato un preciso obbiettivo dell’anabasi, rimane però solo un risultato iniziale, perché lo sforzo dell’anima non deve limitarsi a trarsi fuori da ogni “peccato”, dall’azione morale non conforme alla Legge Divina, ma, specialmente, deve tendere ad identificarsi a Dio, e, in ultima istanza, al Divino Supremo. Perciò una volta che l’anima ha realizzato la virtù civile, che gli consente di misurare e dirigere razionalmente tutte le attività delle facoltà irrazionali che operano in relazione alla vita sensibile e corporea, essa deve trascendere la dimensione della vita civile, “…scegliendone un’altra, quella degli Dei: perché a questi, e non agli uomini buoni, essa vuole rassomigliare”[14]. La pratica delle virtù morali e di quelle civili conforma l’anima a Dio, mentre la pratica interiore delle virtù catartiche e di quelle contemplative assimila l’anima a Dio. La prima somiglianza si produce con gli uomini buoni, santi e giusti, ma questa somiglianza ha un carattere limitato, occorre mirare ad una somiglianza superiore, infatti “…la rassomiglianza con costoro [gli uomini buoni] è come quella di un’immagine con un’altra immagine, che deriva dallo stesso modello, ma quella con Dio è un’altra cosa, è con il modello stesso” [15]. [1] Platone, Leggi, IV, 716c-d. [2] Plotino, Enneadi, II, 9, 15, 40. [3] Platone, Gorgia, 500c, 527 e; Repubblica 352d, 618b-619b. [4] Platone, Fedro, 250b-251 a. [5] Porfirio, Vita di Plotino, 10, 34-38. [6] Plotino, Enneadi, VI, 9, 10: “Perché dunque l’anima rimane lassù [nella semplicità dell’Uno]? Perché non è ancora uscita di qui [dal mondo] completamente. Tempo verrà in cui la sua contemplazione sarà ininterrotta senza che il corpo non la infastidisca più. Tuttavia, tale fastidio non riguarda la nostra virtù veggente, ma la parte superstite, la quale, quando il veggente è inoperoso nel contemplare, non lascia inattiva la scienza che si esercita in dimostrazioni, in argomentazioni e in un dialogare dell’anima; invece, il contemplare e il contemplante non sono più ragione, ma qualcosa di più grande della ragione, che vien prima della ragione e sovrasta la ragione, non meno della visione contemplata”. [7] Rifacendosi a Plotino, Porfirio ha scritto: “E così specialmente per mezzo di questa luce demonica che sale col pensiero sino al primo Dio che è al di là, seguendo la via additata da Platone nel Simposio, egli contemplò quel Dio che non ha né forma né essenza, poiché si trova sopra l’Intelligenza e l’Intelligibile. A questo Dio, lo confesso, io, Porfirio, mi sono accostato e con esso mi sono unito una sola volta: ed ora io ho sessantotto anni. A Plotino apparve la visione del fine vicino. Questo fine e questo scopo era per lui l’unione intima col Dio che è sopra tutte le cose. Finché io fui con lui, egli raggiunse questo fine quattro volte con un atto ineffabile e non potenzialmente. <Nell’oracolo> è detto anche che «gli Dei hanno spesso raddrizzato il suo cammino obliquo e gli hanno concesso di contemplare il frequente irradiare della loro luce»; sicché egli ha scritto le sue opere sotto lo sguardo vigile degli Dei. «Tu contemplavi, ognora vigilante, in te stesso e fuori di te» dice l’oracolo, «e vedevi molte cose belle che difficilmente potrebbero essere visibili a quanti, tra gli uomini, si dedicano alla filosofia». Difatti negli uomini la contemplazione può diventare più che umana; sicché paragonata con quella degli Dei essa è davvero amabile, ma non può tuttavia cogliere il fondo <della realtà>, come fanno gli Dei. Questi versi ci hanno dunque mostrato quello che Plotino ha fatto ed ha raggiunto, finché aveva un corpo. Dopo essersi liberato dal corpo, dice l’oracolo, egli giunse nella «schiera dei demoni», dove abitano l’amicizia, il desiderio, la gioia e l’amore congiunto a Dio, dove si trovano i giudici delle anime, i figli di Dio, Minosse, Radamanto ed Eaco, ma non andò fra loro per farsi giudicare, ma per unirsi a loro, come si uniscono quelli che sono piaciuti agli Dei. Ivi sono Platone, Pitagora e quanti compongono il coro dell’immortale Eros; ivi è l’origine dei demoni beati, che vivono una vita colma di delizie e gioie e la posseggono intera e resa felice dagli Dei, “Porfirio, Vita di Plotino, 23. [8] Plotino, Enneadi, VI, 9, 11, 17-22. [9] Le affermazioni relative al perfetto realizzato, che ha trasceso tutte le sfere condizionate del Divino, si ritrovano in diverse tradizioni spirituali, nel Buddismo, nel Vedanta, nel Taoismo, nel Sufismo. I perfetti che hanno realizzato l’Unità Divina Suprema, o si sono stabiliti in essa anche in modo non definitivo, parlano degli Dei e delle forme determinate del Divino come stati inferiori al loro. [10] Plotino, Enneadi, I, 2, 1-5; I, 2, 7, 21-30. [11] Plotino, Enneadi, II, 5,40. [12] Ibidem, I, 2, 1, 28-30. [13] Ibidem, I, 2, 5, 1-2. [14] Ibidem, I, 2, 7, 25-30. [15] Ibidem. (tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. II) © Associazione Igea 2019 C.so Garibaldi, 120 – Forlì Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale, se non autorizzata in forma scritta dall’Associazione.