La filosofia platonica ha un carattere soteriologico integrale, fondata sull’elaborazione dialettica della dottrina metafisico-misterica della condizione originale dell’anima, della sua catabasi e dello stato di pena che essa soffre nello stato di soggezione alla natura titanica, tutto il suo sistema operativo è volto esclusivamente alla liberazione dell’anima dal male e da ciò che essa soffre a causa della privazione della sua salute originale.

Errano in modo grossolano coloro che credono che la filosofia platonica sia un prodotto umano, come le filosofie degenerate di tipo moderno, nelle quali un certo individuo, completamente staccato da qualsiasi scienza religiosa o disciplina misterica, si propone come qualcuno capace di fornire una sua visione della realtà e, in senso lato, come colui che ha compiuto una ricerca umana sulla natura ultima delle cose, sul loro senso e anche sulla natura dell’uomo e sul suo fine di bene. Niente di tutto questo è presente nella filosofia divina platonica che è espressione della religione e dei misteri, in essa non vi è alcuna presenza di opinioni umane, né di fantasie provenienti dallo stato di ignoranza, dunque il suo insegnamento non è il prodotto del divagare dell’uomo attraverso lo strumento del suo pensiero, non è il frutto di un’attività dialettica critica indefinita. Non è possibile ridurre la filosofia platonica a ciò che Socrate ha svolto al principio del suo magistero o, come dire, nella sua attività basilare di dialettico, attraverso la quale, mediante l’elenchos, conduceva il soggetto alla conversione dell’anima in senso filosofico, al fine di orientarla a sophia. Socrate non invitava ad alcun divagare vano perpetuo, perché la filosofia ha un fine ben preciso, la sophia, ed il filosofo è interamente ordinato ad essa. Egli non presume che la sua attività filosofica non abbia termine, perché sa che il suo scopo non è quello di divagare senza termine in una discorsività di tipo umano e broteico, che non oltrepassa mai la condizione di sofferenza di chi soffre lo stato umano, ma egli si pone al di là, nella dimensione propria dell’inerranza, e raggiunge la quieta visione sovraceleste dell’Essere Intelligibile. Se poi ogni filosofo che percorre la via non riesce a raggiungere questo risultato è un altro fatto, ma ciascuno tende a questo fine e non a divagare indefinitamente nel circolo della generazione e della corruzione, stando immerso nel non essere, facendo di questa dispersione nella pianura dell’oblio, che è condannata da Platone, addirittura il motivo stesso della filosofia.

Non c’è altro scopo nella disciplina pitagorico-platonica se non la cura dell’ignoranza dell’anima, che è causa di tutto il male che essa soffre e del male che produce con la sua condotta malvagia, questa cura ha un carattere integrale e, come vedremo, prevede la risoluzione dell’anima nell’Uno, e non solo la cura della condizione patologica dell’anima, la quale comunque richiede la costituzione di condizioni precise, a far principio dalla retta disposizione alla cura, senza la quale la cura stessa non può essere avviata, né compiuta. Quando tratteremo più precisamente di paideusis platonica, o di disciplina educativa e formativa dell’anima, parleremo di essa come therapeia, come cultura soteriologica dell’anima fondata sull’ascesi della conoscenza che libera dall’ignoranza al fine di ripristinare la sapienza, lo stato di salute originale dell’anima. Qualsiasi altro indirizzo operativo non ha nulla a che vedere con la filosofia divina di carattere platonico, ma spesso si tratta solo di deformazioni di carattere umano.

I passaggi in cui la disciplina filosofica è considerata come therapeia, come cura della sofferenza dell’anima, sono molteplici e si trovano disseminati in tutta l’opera del Maestro. Allo stesso modo Platone mostra ripetutamente la necessità della conversione, particolarmente nel Repubblica e in diversi punti del suo insegnamento magistrale. Se non si crea una volontà univoca di rimuovere l’ignoranza, la corruzione della ragione e dell’intelletto, la tirannide della natura titanica e la perversione dell’eros psichico, nessuna cura dell’anima può essere intrapresa. Per via della sua natura la filosofia platonica presenta una struttura analoga alla medicina del corpo, perciò effettua innanzi tutto una diagnosi, dalla quale evidenzia che l’uomo è immerso nel male, to kakon, a livello ontologico, psicologico, morale e corporeo. A causa di ciò, ogni aspetto della sua vita è caratterizzato dalla presenza della sofferenza, pathos, kakia, e dunque dalla malattia e dalla malignità, dal vizio e dall’ingiustizia, dall’inquietudine e dall’infelicità. In seconda istanza la filosofia espone l’eziologia della sofferenza, che ha la sua radice nell’ignoranza metafisica, o agnosia, dalla quale procede il vano desiderare il falso bene, con tutto quello che ne consegue: la vita contraria all’essere, il vizio, la corruzione, la morte. In terza istanza la filosofia tratta della prognosi, ossia della possibilità di risolvere la sofferenza attraverso la risoluzione dell’ignoranza. L’anima che si applica rettamente alla conoscenza si libera progressivamente dall’ignoranza e dunque dalla soggezione al male, fino a che, nella perfezione della sapienza metafisica, sapientia svprema, epignosis, realizza l’Identità Suprema nella henosis-aplosis, per cui ogni condizione determinata viene trascesa nella realizzazione della pienezza integrale dell’Uno senza secondo. L’uomo può però essere condotto alla salute solo se nella sua anima non hanno preso definitivamente il sopravvento le tendenze oscuranti e deformanti dell’ignoranza e del vizio, ed in lui è ancora presente una sufficiente tendenza alla conoscenza, “… ma se uno ha natura malvagia, come purtroppo la maggior parte degli uomini che hanno indole ostile all’apprendimento e alla costumatezza, e se i costumi di vita sono corrotti, neanche Linceo potrebbe dare a siffatte persone la capacità di vedere”.

Gli uomini possono essere sapienti e perciò uguali agli Dei, essi non sono più “amanti di sapienza” in quanto la possiedono, oppure possono essere insipienti, fra di essi vi sono quelli che conservano ancora una traccia di tendenza al bene, perciò possono diventare amanti della sapienza, e dunque filosofi in diverso grado, fino al conseguimento della sophia, ma vi sono anche quelli in cui la malignità, la deformazione dell’anima, la pronitas ad malvm è tale che predomina in loro la tendenza all’ignoranza e al piacere, secondo l’animalità, per cui l’amore di sapienza in queste anime non si innesca più, tanto sono malvagi, e il malvagio radicale non si volge mai al bene. I maligni, malati profondamente nell’anima, non amano la sapienza, ma se non sono del tutto compromessi dal male possono raggiungere la hexis filosofica, per cui in loro si stabilisce l’amore di sapienza, così, pur non essendo ancora buoni, ma nemmeno completamente corrotti, diventano filosofi. In ogni caso, solo l’anima che costituisce la hexis filosofica può essere curata e raggiungere la salute, invece l’anima in cui l’ingiustizia è diventata così profonda da essere cronica o degenerativa, risulta inguaribile. Lo stato dell’anima può essere pronosticato in diversi modi, uno di questi concerne la reazione all’azione catartica e convertiva operata dal sapiente-medico. Se l’anima, al momento dell’invito ad esaminare il suo stato, e specialmente di fronte alla prima presa di coscienza del­la sua ingiustizia-malignità, non presenta un interesse retto e specie un’adeguata accoglienza dell’azione benefica, la malignità è molto grave. Se l’anima non muove di propria volontà, con intensità diversa, verso la correzione, la cura, verso il giudizio e la sanzione per la sua empietà-ingiustizia, con evidente stato di gioia, dà segni negativi e la prognosi è molto problematica.

In ultima istanza la filosofia descrive la via alla salute, nei suoi principi, nei suoi modi, nei suoi stadi. La via alla sapienza richiede una compiuta conversione interiore e pratica, come dice giustamente Porfirio, l’anima dà inizio alla cura della malattia a partire dal giorno in cui si stacca dai desideri materiali e rivolge tutti i suoi pensieri al Divino e, aggiungiamo noi, ordina tutta la sua vita al Divino, fino a che dapprima realizza la somiglianza, e poi l’identità con il Divino stesso.

La vita pratica che conduce alla salute si concretizza nella paideia filosofica, nella cultura dell’intelletto, che si traduce nel bios theoretikos, ossia nella vita contemplativa, una vita ordinata e finalizzata alla contemplazione dell’Uno-Bene, col quale l’animo si identifica nel conseguimento di hyghieia-salvs, liberandosi dall’insufficienza e dalla sofferenza di ogni ordine e grado in modo perfetto.

Il principio della via alla salute si ha nella conversione dell’anima alla sapienza, fino al compimento della conversione l’anima deve impegnarsi, con tutta se stessa, per ottenerla, ponendosi come fine pri­mario di ogni suo atto la liberazione dall’ignoranza. Per porsi questo fine l’anima deve cessare di credere di sapere, e dunque deve prendere atto della sua ignoranza e della relativa presunzione superba di cono­scere ciò che non conosce.

Credere di sapere, pur non sapendo, è la forma di ignoranza peg­giore, la più grave e la più vergognosa. Dal credere di sapere deriva la superbia, che a sua volta fa ritenere al soggetto ignorante e nell’er­rore di non avere alcun bisogno di conoscere e persino di essere buono o virtuoso, perciò chi è affetto da superbia non matura la volontà di liberazione dall’ignoranza e dal vizio, ossia la volontà di modestia. L’animo che ritiene erroneamente di sapere non può liberarsi dall’errore e dall’ignoranza, perciò egli, ad esempio, continua a scambiare se stesso con il corpo, e si prende cura di esso come se l’uomo coincidesse con esso. Il corpo è uno strumento per l’anima, per il vero uomo, va utilizzato per conseguire la virtvs, la salvs, unica cosa buona a cui tendere, non il contrario, dunque l’anima non deve servire il corpo per ricevere piacere o ricchezza, fama o onori. L’ignorante inverte il senso delle cose, e perciò agisce sempre contro se stesso, per il suo male, quindi non persegue la sua salute, ma il peggiore dei mali. La mancanza della cognizione del vero bene, la sapienza, su cui si edifica la giustizia, è causa di ogni nefandezza, nella condotta dell’uomo e nella società.

L’ignorante è vittima di un’attività opinativa vuota e produce false opinioni, dalle quali l’anima superba è rovinata e condannata ad ogni genere di deviazione, e quindi alla passione e al vizio, alla sofferenza e all’infelicità. Avvinta dall’illusione, l’anima superba, ma ignorante, opera sempre nel male, per il suo male. A partire da questa condi­zione occorre avviare una cura che porti alla completa rimozione dell’ignoranza, senza limitarsi a qualche rimozione superficiale degli erro­ri, perché occorre sradicarli completamente.

L’anima era originalmente fondata attivamente sull’Essere Divino, in quanto raggio emanato dal Sole Intelligibile essa permaneva nella consapevolezza relazionale della sua natura divina e, allo stesso modo, del suo essere determinato. Ferma nella visione facciale di Dio, essa lo rifletteva perfettamente e perciò da Esso veniva misurata immediatamente, rimanendo ad Esso pienamente conformata, nel suo essere e nel suo atto. Questo stato unitivo principiale comportava che la sua essenza, l’intelletto, il nous, mediazione di Dio nell’essere dell’anima, era completamente integrato nell’Intelletto Divino, e Dio costituiva la sua presenza in atto nel centro dell’anima. In tal modo ciò che è immediato in Dio si mediava in ciò che ha la funzione di rivelare nell’alterità l’unità indispiegata dell’Essenza Divina. Se non vi fosse la presenza di Dio nell’anima, essa non avrebbe consistenza nell’essere, né alcuna misura, né ordine nei suoi atti. Quando il nous è in atto nell’anima essa si trova nel suo stato perfetto, quello della sua natura originale e della sua funzione propria. Quando il nous non è in atto nell’anima essa perde la consistenza nell’Essere Divino, l’immanenza attiva della Luce dell’Intelletto Divino viene sospesa e perciò viene meno anche ciò che la misura, la ordina e la mantiene integrata nell’ordine provvidenziale universale.

È proprio a causa della sua polarizzazione eteronoma e del ripiegamento su di sé che l’anima sperimenta uno stato di illusoria distinzione da Dio e una presunzione di indipendenza da ciò che la genera, la sostiene e l’alimenta senza sosta, facendola sussistere nell’essere, dandole la forma che ha e rendendole possibili gli atti che svolge, nonostante la sua incoscienza di tutto ciò. A far principio dalla distinzione alterante segue l’opposizione occultante, la quale è principio di catabasi, a causa della quale l’anima perde completamente ogni rapporto attivo con l’Intelletto Divino trascendente, che comunque la sostiene e la illumina occultamente senza interruzione, dandole l’ordine sufficiente alla sua esistenza e indirizzandola al suo fine nel piano provvidenziale del Bene Universale. Quando però l’anima sprofonda nella carne, alla fine della discesa catabasica, essa viene assoggettata completamente all’oscurità della natura titanica, perciò giace nella pena che la completa privazione della fruizione dell’Essere Divino e della Sua Luce comporta.

Come abbiamo anticipato, alla diagnosi approfondita dello stato maligno che si è costituito con la catabasi, che evidenzia la soggezione dell’anima al kakon, a ciò che è kak-, costrizione, avviluppo, velamento dello on, dell’ente, dell’essere proprio dell’ente, segue una prognosis, la quale prevede che l’anima che patisce la condizione titanica, lo smembramento della sua unità intelligibile prodotto dalle potenze titaniche sublunari, con la sua dispersione nella molteplicità sensibile e la soggezione agli accidenti della natura titanica, recuperi ciò che ha perduto e quindi riacquisisca la conoscenza diretta dell’Essere Intelligibile e la conformazione ad Esso, riordinando la sua essenza e la sua facoltà cognitiva primaria a questo fine. Dato che nella sua discesa l’anima si è completamente distolta dall’Essere, dalla Realtà, è necessario che essa ritorni su se stessa compiendo un totale ribaltamento della sua disposizione, una vera e propria conversione o metastrophé.

(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. II)

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