
La filosofia è una via di divinizzazione integrale dell’anima, la quale non può essere presentata in modo riduttivo, come fanno certuni che trattano solo della fase iniziale della prassi filosofica, di ciò che riguarda la basilare purificazione o si limitano a descrivere la condotta morale del filosofo, così come altri invece espongono in modo degradato ciò che costituisce l’autentica filosofia integrale di matrice pitagorico-platonica. La prassi della filosofia integrale non si arresta alla realizzazione della tranqvillitas animi, alla perfezione della condotta pratica o al conseguimento della prudenza civile, questi sono certamente obiettivi inclusi nella prassi filosofica, ma vanno considerati solamente preparatori alla disciplina catartica e a quella contemplativa, quest’ultima, a sua volta è finalizzata alla disciplina unitiva e a quella identificativa, ovvero alla divinizzazione integrale.
In ambito ellenistico l’orizzonte della filosofia tradizionale fu ridotto in senso civilistico o moralistico, prima dalla Stoa e poi, ancor più, dall’epicureismo e da altri indirizzi filosofici come il cinismo o lo scetticismo, i quali si limitavano all’orizzonte individuale dell’uomo e non prevedevano conseguimenti filosofici che esulassero dal limite della presenza dell’anima alla condizione corporale, sebbene separata dal corpo, come nella Stoa. Queste scuole minori occupavano i gradini inferiori della filosofia e si rivolgevano a uomini carnali o psichici, ciascuna di esse reputava che nella loro prassi si risolvesse tutta la filosofia, ma ciò era erroneo. In ogni caso, non si può comunque prescindere dal risultato che seppur parziale le filosofie di tipo riduttivo proponevano, mentre oggi si prospettano “ vie filosofiche” di carattere caricaturale, come quelle che vengono diffuse come recupero delle “pratiche filosofiche antiche” o come “consulenza filosofica”. Queste iniziative non hanno che la parvenza della vera filosofia e, in diversi casi, non hanno il benché minimo collegamento con ciò che costituisce l’autentica filosofia pitagorico-platonica. La prassi filosofica reale affronta la soluzione di “problemi” o “mali” che riguardano l’anima a partire dall’Uno, dalla Realtà, da Dio, tratta del vero problema e del vero male, chi fa della “filosofia” uno strumento di conservazione dell’ego titanico, per non dire di approfondimento del male, contribuisce ad inabissare l’anima nell’illusione e nella malvagità. Così viene invertito il senso della filosofia, fino a renderla uno strumento diabolico al servizio dell’attività di Flegias, l’avversario di Apollo, opponendosi al Dio che ha costituito la via filosofica divina in Pitagora.
Sebbene si possano considerare analoghe la cura medica e la cura filosofica, nondimeno si devono considerare insensate queste parole di Democrito: “…la medicina, infatti, è l’arte che cura le malattie del corpo, la filosofia quella che sottrae l’anima al dominio delle passioni”. Le parole di Democrito distinguono la medicina del corpo da quella dell’anima, mentre la filosofia medica integrale non fa distinzioni. Queste parole, come è noto, sono state riprese da Epicuro: “Vano è il discorso di quel filosofo che non cura le passioni dell’uomo. Come infatti non c’è alcun vantaggio dalla medicina che non cura le malattie dei corpi, così nemmeno dalla filosofia se non caccia le passioni dall’anima”.
La filosofia non è certo astrazione, limitazione al dire, verbalismo, vacuità discorsiva, dialogicità inconcludente, non si risolve nell’indagine astratta di cosa siano la virtù e il bene, ma nel diventare veramente virtuosi e buoni, perché altrimenti in essa non vi sarebbe nulla di utile e vano sarebbe l’esame delle azioni buone e del come si debbano compiere, se poi non vengono compiute per divenire buoni. Perciò, con Seneca va detto sempre: “… facere docet philosophia, non dicere”, quindi:
“La filosofia non è già un’arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni (…) la filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare, ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi in balia delle onde attraverso i pericoli. Senza questa [la filosofia], nessuno può vivere libero da timori e tranquillo; a ogni istante accadono innumerevoli fatti, i quali esigono consigli che solo essa può dare”.
Nessuno iato deve esserci fra la disciplina teoretica e la disciplina morale, se la filosofia non diventa arte del vivere è vana, è un chiacchiericcio vuoto, vanità di pseudofilosofi, informazione eruditiva sterile, non formazione divina e divinizzante dell’anima. Il vero filosofo, pertanto, è esemplare nel rigore della sua coerenza e nella condotta di vita, nella quale traduce l’ideale filosofico, il perseguimento della felicità, a cui è interamente dedicato. Spesso questa condotta crea contrasti, attira invidie, gelosie, critiche, calunnie e diffamazione, a far principio dalla persona nella quale tutto ciò si è concentrato, ovvero Socrate, il quale per la sua condotta divenne “martire” della filosofia. Egli fu la figura che segnò il passaggio fra la filosofia propriamente religiosa ed iniziatica, di carattere integralmente divinizzante, e una certa filosofia di carattere “democratico” e “volgare”, che si è diffusa anche fra gli strati inferiori del popolo nel periodo ellenistico.
In realtà in Socrate sono presenti sia la dimensione esoterico-iniziatica della filosofia, sia quella exoterica, la prima ha un carattere integrale, noetico e henologico, e mira alla realizzazione degli stati puramente divini dell’Essere, la seconda è circoscritta alla dimensione morale e al compimento della saggezza pratica, civile o tuttalpiù cosmica. Dalla modalità exoterica di fare filosofia presente in Socrate hanno avuto sviluppo diverse scuole, dal suo insegnamento più esteriore nacquero e si svilupparono, secondo il modo della prassi morale e perseguendo il fine eudemonistico individuale, le diverse filosofie ellenistiche, ma il suo principale discepolo, Platone, conservò l’integralità della tradizione filosofica antica e sviluppò compiutamente la dimensione esoterico-iniziatica della via filosofica, intesa nella sua più pura realtà metafisica, perciò Platone ha reso possibile la pratica filosofica divinizzante, con tutti i benefici che questa comporta.
Socrate si è rivolto anche verso l’esterno, al demos indifferenziato, perché esso divenisse il beneficiario della prassi filosofica elementare, perciò egli ha promosso la verifica razionale delle opinioni e delle convinzioni presenti nelle anime degli uomini comuni e, in particolare, li ha indotti a rendere ragione della loro condotta di vita. In questa dimensione esteriore Socrate ha svolto in primis una funzione purificatoria preliminare di carattere elenctico, con uno scopo protreptico e convertivo, al fine di immettere quanti ancora fra gli uomini erano salvabili alla via filosofica che conduce alla sapienza, consentendo anche ai molti di accedere ai gradi inferiori di realizzazione che la prassi filosofica consente di attuare. Socrate ha affermato, con la sua vita e con il suo esempio, oltreché con la sua morte, che una “…vita che non faccia tali ricerche [filosofiche] non è degna di essere vissuta…”. È solo in questo modo che la filosofia può essere considerata una vera disciplina per la cura dell’anima, epimeleia tes psyches, e dunque una vera psyches therapeia.
La cura dell’anima però non può avere inizio fintanto che il soggetto, spinto a rendere conto di sé, della sua identità, delle sue convinzioni, della sua condotta, non prende atto della sua radicale insufficienza epistemica e dà inizio ad un autentico viraggio convertivo di tutta la sua persona nel senso della ricerca della conoscenza vera, una ricerca che fonda sulla “scienza di sé”, heautou episteme, quella scienza che si contrappone alla mera opinione, doxa, perché possiede in se stessa gli oggetti del suo sapere, i quali sono immutabili, sempre stabili e mai divenienti. Non vi è nulla da fare, per poter diventare filosofo occorre compiere una completa rivoluzione interiore, una vera conversione, periagoghè, in modo che possa essere dato luogo all’effettiva elevazione dell’anima al Divino, attraverso un’anabasis che è come un’ascesa, epanodos, dell’anima nei diversi stati superiori dell’Essere. A partire dalla separazione dal corpo l’anima ascende nei Cieli, fino a raggiungere la stazione iperurania, sovraceleste, dalla quale essa può raggiungere l’integrazione nell’Essere Intelligibile e poi la perfetta unificazione nell’Essere Infinito.
La filosofia integrale va ben oltre l’azione protreptica rivolta verso tutti gli uomini, va al di là della semplice attività di carattere elenctico-catartico che produce la conversione, ma va oltre anche alla semplice disciplina morale e civile, che ha un fine irenico ed eudemonistico. La prassi basilare della filosofia ha la funzione di sottomettere il corpo e le sensazioni al dominio della ragione, in modo che si possa compiere una vita pratica e politica senza subire passioni, ma il vero fine della filosofia è la sophia e l’anima deve essere messa in condizioni di procedere alla sua realizzazione, a far principio dalla sua completa separazione dal corpo. Per riassumere questi ultimi chiarimenti è possibile chiamare in causa Plotino, che tratta dello sviluppo della prassi filosofica integrale, che trascende il perseguimento delle virtù civili:
No, egli conoscerà queste «virtù inferiori» e possederà tutto ciò che ne deriva, fors’anche agirà conformandosi ad alcune di esse, se le circostanze lo richiederanno. Ma, arrivato a principi e a norme superiori, agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare «i desiderî», ma con l’isolarsi completamente, per quanto sarà possibile, «dal corpo»; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile, ma l’abbandona, scegliendone un’altra, quella degli dei: perché a questi, e non agli uomini dabbene, egli vuol rassomigliare. La rassomiglianza con costoro è come quella di un’immagine con un’altra immagine, che deriva dallo stesso modello; ma quella «con Dio» è con un’altra cosa, è col modello stesso.
La filosofia è la disciplina più nobile a cui l’uomo possa dedicarsi, in particolar modo la dialettica che costituisce la parte più importante ed eminente della filosofia: “Che, dunque? Non è forse la filosofia la cosa più pregevole? O sono la stessa cosa filosofia e dialettica? No, una, la dialettica, è la parte pregevole della filosofia”. Certo, la dialettica costituisce la quintessenza della disciplina filosofica, ma la dialettica può essere esercitata in diverse direzioni e in diversi gradi, può rivolgersi alla vita corporea e all’attività pratica, può esaminare l’attività dialettica propria della ragione dell’anima, ma può anche rivolgersi verso l’alto, e quindi può trascendere il piano orizzontale della discorsività per esaminare i fondamenti stessi della dialettica, la sua origine, perché sussiste e se essa abbia consistenza in se stessa o dipenda da altro che la trascende. Il rivolgimento della dialettica in senso ascensivo e trascendente ha propriamente una funzione anagogica e risolve la dialettica discorsiva nell’attività che trascende la costituzione del dialeghesthai, la pura attività noetica, nella quale sussiste l’immediata visione delle idee, attorno a questa visione la dialettica discorsiva sviluppa la sua attività, senza mai identificarsi con essa.
L’attività filosofica integrale è volta esclusivamente a svelare l’Identità Suprema ed è ordinata alla henosis, per la quale l’anima si risolve interamente nell’Uno, in modo che il soggetto non sia più diverso dall’oggetto e ogni distinzione fra soggetto e oggetto scompaia, così come la loro determinazione. Quindi il filosofare sull’Uno, sull’Essere Integrale, ha come fine la realizzazione dell’identità del filosofo con l’Uno, per essere solo ciò che l’Uno è propriamente:
Ma quando l’anima desidera vedere solo per se stessa e, così contemplando, si raccoglie in unità ed è una perché è una con Lui, non crede di possedere ciò che ricerca perché non è diversa dall’oggetto del suo pensiero. Proprio così deve fare colui che si avvia a filosofare intorno all’Uno. Ora, poiché noi andiamo cercando l’Uno e scrutiamo il Principio di tutte le cose, cioè il Bene e il Primo, non dobbiamo allontanarci dai primi esseri per cadere nelle cose ultime, ma dobbiamo elevarci ai primi svincolandoci dalle cose sensibili che sono le ultime, e da qualunque malizia; proprio perché desiderosi di avvicinarci al Bene, dobbiamo salire al Principio che è immanente in noi e raccoglierci, via dalla molteplicità, nell’unità, per raggiungere la contemplazione del Principio e dell’Uno.
L’attività dialettica e discorsiva, così come quella relazionale e distintiva, devono essere progressivamente superate, perché il soggetto che vuole contemplare l’Uno deve rientrare in se stesso e, in tal modo, nell’Uno, che è senza relazione ad altro in se stesso. Nel percorso filosofico non può essere conservata la modalità di conoscere abituale, perché mano a mano che il soggetto ascende agli stati superiori dell’Essere, ascende a modi di conoscere diversi, nei quali si modifica anche la sua identità avventizia. Perciò, al fine di superare ogni limitazione dello stato ontologico, così come di quello gnoseologico ed epistemico, occorre una precisa disciplina, uno sforzo ascetico che consenta di risolvere le varie determinazioni dell’Essere, affinché l’anima possa accedere agli stati superiori, fino a realizzare l’aplosis e la relativa henosis.
L’anima procede alla sua ascesa anabasica a partire dall’esperienza sensibile, poi essa si stabilisce interamente nel dominio intelligibile e, una volta giunta ad esso, si eleva ulteriormente, per giungere alla sua sommità:
“Qual è dunque il modo? Forse uno solo ed è lo stesso per tutti quanti costoro oppure ve n’è uno particolare per ognuno? Il viaggio è duplice per tutti, sia che salgano sia che siano giunti in alto: il primo parte dalle realtà inferiori, il secondo invece appartiene a coloro i quali, entrati nell’Intelligibile e, per così dire, posta in esso la sola loro impronta, è necessario che procedano sino a quando non siano pervenuti all’estremo limite del luogo, il chè costituisce la fine del viaggio, quando si è arrivati alla sommità dell’Intelligibile”.
Il percorso filosofico conduce all’Uno e prevede un’ascesa nei diversi stati dell’Essere, finché, da un lato si giunge al vertice del sensibile, dall’altro lo si trascende, per giungere alla base dell’universo intelligibile, dalla quale si procede fino a giungere alla sua vetta. Quindi, dapprima si libera completamente il nous da ogni rapporto con la dimensione inferiore dell’esistenza, quella cosmica, poi il nous viene rivolto al vertice di ciò che è sovracosmico o sovraceleste, che è anche il Fondamento della sua costituzione, l’Essere Intelligibile, fino ad identificarlo con Esso. Due sono gli stadi dell’ascesa filosofica, che corrispondono anche ai due gradi dell’esercizio dialettico, il primo si svolge in un ambito dianoetico, il secondo in un ambito noetico. Sia in un caso che nell’altro, per esercitare la dialettica e attingere alla scienza è necessario che sia stata compiuta una completa separazione dal corpo, nel primo caso realizzando perfettamente le virtù catartiche e nel secondo caso realizzando completamente le virtù teoretiche inferiori, per accedere poi a quelle superiori. L’attività del pensare deve essere purificata dal corpo in un caso e dal mondo nel secondo caso, l’attività dialettica, se vuole attingere all’idea e all’essenza, non deve essere commista con elementi sensibili, né poi con elementi temporali.
Occorre tenere presente che l’attività dell’anima, sia essa dialettico-dialogica mediata, che intellettivo-noetica immediata, può essere svolta rettamente solo se l’anima è stata purificata completamente da elementi estranei al suo essere proprio, perciò la purificazione è funzionale a far procedere rettamente la sua azione dialettica fino a farle raggiungere il suo fine. Torneremo più avanti ad esaminare i diversi elementi connessi ai gradi e ai modi della dialettica, però fin da ora deve essere chiaro che alla filosofia non deve essere attribuito il compito limitato di sciogliere l’anima dal vincolo corporeo, o di mettere in condizione l’anima di misurare le passioni e condurre una vita pratica senza patire perturbazioni. La vera filosofia mira alla soluzione del vincolo corporeo, ma anche al superamento del vincolo cosmico-temporale, fino al punto in cui, ritornata alla sua patria intellegibile, l’anima può risolversi nel suo Principio Divino, per trascendere infine ogni determinazione nell’Identità Suprema. La purificazione dell’anima non si arresta perciò alla condotta morale, né a quella prudenziale, ma essa deve procedere a liberare integralmente l’anima per risolverla nella contemplazione identificante dell’Uno, dell’Essere Divino Integrale. Il vero filosofo pertanto è colui che mira allo scopo ultimo e supremo della filosofia, e, attraverso la sua disciplina, riesce a liberarsi da ogni vincolo e determinazione, così come da ogni malia e sofferenza, in modo di accedere compiutamente all’intelligibile e ritornare ad esso come alla propria patria, per poi perfezionare l’ascesi nella henosis suprema.
Secondo Plotino vi sono tre categorie di uomini o, se si vuole, visto che in questo caso egli si riferiva indirettamente ai filosofi, tre tipi di filosofi. I primi si arrestano alle cose sensibili, credendo che queste cose siano le uniche reali, perciò essi identificano il bene con il piacere e il male con il dolore, fra i filosofi avrebbero questa posizione gli epicurei. I filosofi del secondo tipo hanno un animo più nobile, però non sanno comunque andare al di là della vita pratica e civile, o, tuttalpiù, non superano la “coscienza cosmica”, quindi non sono in grado di innalzarsi alla dimensione intelligibile pura, alla realtà metafisica eterna, al massimo sono in grado di pensare le cose in termini cosmopolitici, fra i filosofi questi sarebbero gli stoici. Il terzo tipo di filosofi ha una natura divina, questi sono i soli che oltrepassano la dimensione dell’apparenza sensibile e del mondo, perciò possono accedere con la loro vista interiore alla realtà eterna, ricostituendosi compiutamente in essa, questi sarebbero in parte i filosofi aristotelici, ma più completamente i filosofi platonici, che oltrepassano anche il dominio intelligibile dell’Essere per costituirsi nell’Unità Divina Suprema.
Vero filosofo è dunque solo colui che mira all’Essere Vero e Intero, specialmente è colui che ha avuto accesso alla Realtà Integrale e si è identificato ad Essa. Solo il filosofo che ha svelato in sé la verità integrale è vero e tutto ciò che procede da lui è veritiero, perciò la natura della filosofia è determinata dal suo oggetto finale e non può, in alcun modo, essere ridotta a qualche cosa di altro, pena il suo degrado e la perdita della sua natura e della sua funzione divinizzante e liberatoria. È chiaro che l’esercizio della filosofia non può mai ridursi all’erudizione libresca o all’applicazione ai contenuti di generici libri di “storia della filosofia” o ai commenti di “storici” della filosofia ai testi di filosofia, queste condotte non hanno niente a che vedere con la vera filosofia, tuttalpiù si tratta di “filosofia universitaria”, o scolastica, di tipo professorale, astratto ed eruditivo, senza alcuna vera applicazione alla pratica filosofica. L’insieme delle informazioni sulla filosofia, per quanto possano essere corrette, non sono filosofia, sono scritti o discorsi che hanno un carattere, per lo più, profano, molto spesso sono scorretti e sviano dalla vera natura della filosofia.
Da secoli viene svolta una precisa critica a colui che può apparire filosofo ma non lo è, o a ciò che viene ritenuto filosofico, ma in realtà è altro. La critica socratica ai sofisti e al loro modo professorale di insegnare ha aperto la strada, essi, facendosi pagare, riproducevano in modo indegno la condotta di un autentico filosofo. Poi è venuta la critica del filologo, una figura che, già dal IV secolo a.C., si è distinta da quella del filosofo, e ha assunto un ruolo sempre più importante nell’ambito della custodia e della trasmissione del sapere religioso arcaico. L’applicazione agli studi e alle scienze esteriori fu considerata una deviazione dalla prassi filosofica autentica, per cui, specie nel periodo ellenistico, vi fu una svalutazione di tutta la prassi filologica e delle discipline che, ai fini della realizzazione filosofica, non presentavano alcuna rilevanza o erano persino di ostacolo. Da Eraclito in poi la polimathia fu ritenuta contraria alla pratica della semplificazione e della interiorizzazione iniziatica richiesta dall’autentica filosofia. Lo studio delle artes liberales, lo stazionamento in esse, o, il limitarsi alle inferiori arti del trivio, alla logica o, peggio, alla grammatica, all’esame esegetico ed ermeneutico dei testi religiosi, soffermandosi esclusivamente sulla lettera, hanno subito forti critiche da tutti i filosofi. Seneca è molto chiaro al proposito, egli dice che gli studi liberali sono degni di un uomo libero, però precisa che lo studio veramente liberale è quello che rende realmente liberi e questo è lo stvdivm sapientiae, ovvero la philosophia, rispetto al quale gli altri studi diventano insignificanti e puerili, ad essi, e ciò è molto significativo, si dedicano anche gli uomini più infami e dissoluti,cosa che non è possibile per la filosofia. In sostanza, gli studi liberali, presi in se stessi e limitati ad essi, non hanno alcuna funzione liberatoria, essi vengono idolatrati quando sono scollegati dalla loro funzione esclusivamente preparatoria alla dialettica superiore o alla contemplazione, se a questi studi si accede con un animo impuro si produce un effetto deviante.
Ciò che rende l’animo veramente buono è il possesso della scienza immutabile del bene e del male, ma nessuna disciplina indaga sul bene e sul male e permette di divenire buoni al di fuori della filosofia. Seneca individua chiaramente l’insuperbimento che si produce con la vana erudizione libresca, questa condotta accresce la presunzione di sapere quando, in realtà, il vero sapere si traduce in un preciso stato dell’essere dell’anima e della sua condotta, mentre coloro i quali si dedicano allo studio vano rimangono vuoti dell’essere e la loro condotta generale tradisce la loro mancanza di bontà. Nella ricerca di una conoscenza superflua, nell’indugiare in un vano discorrere, nell’estensione indefinita di questa vanità, si evidenziano forme di smisuratezza, di intemperanza, di un’avidità che alimenta il compiacimento di sé, l’inorgoglimento e accresce il vano amor proprio connesso alla falsa identità titanica.
“Ma mi piace conoscere molte scienze”. Rammentiamone solo lo stretto necessario. Oppure secondo te è riprovevole chi raccoglie oggetti superflui e in casa fa sfoggio di preziose suppellettili, e non chi ha la mente ingombra di inutili suppellettili letterarie? Voler conoscere più del necessario è una forma di intemperanza. Che dire poi di questa avida ricerca delle arti liberali che ci rende inopportuni, pedanti, parolai, sempre più compiaciuti di noi stessi e quindi poi incapaci di apprendere ciò che veramente è necessario, perché ormai abbiamo imparato il superfluo (e ne siamo saturi)? Il grammatico Didimo scrisse quattromila libri: ne avrei compassione se solo avesse letto una simile mole di inutilità. In questi libri si discute sulla patria di Omero, sulla vera madre di Enea, se Anacreonte fu più dedito al sesso che al vino, se Saffo fu una donna di malaffare e altre questioni che, se si conoscessero, sarebbe bene disimparare. Su, e adesso nega che la vita sia lunga!”
Originalmente, al tempo della fondazione pitagorica della filosofia, il filosofo e il filologo erano una sola cosa, come il filosofo e il medico, successivamente finirono per separarsi e, nel periodo ellenistico, il filologo divenne tutt’altra cosa rispetto al filosofo, solo un semplice erudito, con una scarsa preparazione filosofica, che aveva un ruolo sociale assolutamente limitato, la cui attività tendeva già allora a sconfinare nell’insuperbimento, nella vanità e nell’avidità di vana erudizione per apparire sapiente. Il vero filosofo rimaneva un esempio di sapienza, santità, giustizia e bontà, era una specifica guida spirituale, kathegetes, a cui si faceva riferimento per trovare consolazione dalle varie disgrazie della vita oppure per liberarsi dalle passioni e dalle afflizioni e accedere alla felicità. Nella forma più elevata il filosofo continuava la tradizione filosofica divina, specialmente colui che aveva realizzato compiutamente il fine della filosofia ottenendo la divinizzazione, diventava un Maestro di scuola, un didaskalos e trasmetteva la filosofia ad una adeguata cerchia di discepoli. I filosofi così riuniti costituivano delle comunità nelle quali si osservava una precisa regola di vita filosofica, che prevedeva un’ortodossia e un’ortoprassi ben codificate, alle quali si riservava venerazione e si custodivano nella segretezza esoterica. In queste istituzioni filosofiche vigeva il divieto di diffondere al volgo ciò che esso non poteva ricevere adeguatamente, né perciò poteva praticare nel modo dovuto.
Il filosofo realizzato, il sapiente, è il modello esemplare e normativo della persona umana, egli è il solo che possa essere considerato spiritualmente e moralmente sano, tutti gli altri uomini devono guardare ad esso come ad un fine, che può essere raggiunto percorrendo la via filosofica che egli ha percorso per curare l’ignoranza-follia. Nel VI libro del Repubblica, Platone tratta della natura del filosofo, dalla descrizione delle sue qualità innate e della sua condotta emerge la figura dell’uomo perfetto, vero, misurato, mite, temperante, amante di sapienza e giustizia, è l’uomo ideale che incarna tutte le qualità intellettuali e morali, quindi deve essere considerato come l’uomo veramente felice.
Il filosofo non è mai per sé, nel senso di considerarsi un individuo definito da un corpo, ma neanche da un’anima, egli è tutto per Dio, per l’Essere Vero. Se il soggetto si ritrova ad essere per sé, e si limita all’individuo psicosomatico, egli non ha niente di filosofico, così perde se stesso e la via della filosofia e si volge in senso contrario. Divenuto qualcuno che pratica il culto del sé illusorio, non si applica all’autentica cura di sé, magari ha gustato il sapore vano dell’erudizione filologica o letteraria, e presume di essere “filosofo”, solo perché sembra capace di dissertare ora su Platone ora su Aristotele o su qualsivoglia altro filosofo, ma egli è tutt’altra cosa da un filosofo. Il vano studioso è philosomatos, perciò non potrà mai essere filosofo, né uomo virtuoso, la temperanza e la forza sono le virtù morali fondamentali di chi non brama il piacere, né teme la morte, e chi ama il corpo non può ottenerle. Chi cerca di praticare temperanza e forza senza filosofia, ne simula la realtà, per cui uno può apparire forte per viltà o paura, e un altro può apparire temperante per intemperanza. Ogni vera virtù si risolve necessariamente nell’esercizio del sapere, nella phronesis, perciò fuori dalla filosofia non può esserci che un simulacro fallace di vita virtuosa.
L’anima si infatua e si inorgoglisce facilmente e pericolosamente quando viene messa in grado di tradurre correttamente dal greco o dal latino un’opera filosofica classica, o se è in grado di svolgere un presunto commento esegetico ed ermeneutico della stessa opera. I comuni filologi, grammatici e storici, esibiscono una vanitosa perizia, essi, disquisendo individualisticamente con una dovizia di eloquenza ed erudizione sulle diverse varianti letterarie, sulle forme delle esposizioni, sulla struttura dialogica di contenuti e così via, si illudono di possedere la conoscenza. Il pvrvs grammaticvs si presenta come un pvrvs asinvs, egli è dedito ad una vana ricerca che non rimuove nessun tipo di ignoranza, perciò esso rimane tanto illuso di conoscere quanto è la sua acquisizione quantitativa di dati esteriori.
Questa figura cerca l’approvazione di soggetti che si trovano nel suo stato, i letterati, i filologi, gli storici, i docenti di storia della filosofia o di letteratura filosofica, costoro sono assai distanti dalla filosofia e perciò dall’essere filosofi, ma generano un’illusione di conoscenza in chi li segue, specialmente fra coloro che non conoscono cosa siano la filosofia e la vera conoscenza. Negli eruditi non c’è traccia di vita filosofica, in loro si trovano solo argomentazioni fatue, spesso giustificatorie, essi sono totalmente innamorati della loro immagine titanica ed elaborano indefinite opinioni che non hanno alcuna efficacia filosofica e non sono in grado di portare al bene chi se ne serve. L’erudito si avvoltola e si rigira nel suo fango senza essere in grado di uscire da esso, tesse una tela di inganni, specialmente di autoinganni, fatta di chiacchiere vuote che non si traducono, né possono tradursi, in virtù e sapienza. Costoro non conducono a sapienza, ma anzi ipostatizzano i problemi dell’anima, prostrandola ad una discorsività senza fine, che accresce l’alienazione, l’illusione e la follia. Chi dà fiducia al vano erudito si sottomette alla sua attività ammaliante e si smarrisce senza più speranza di liberarsi dal male. Quando poi questa attività deviata si pone dei fini di culto, diventa veramente abominevole, invece di vergognarsi, di emendarsi, di pentirsi di aver condotto la filosofia in senso contrario, sfigurandone completamente il suo volto divino, gli eruditi si impegnano persino ad avviare altri sulla stessa loro via rovinosa, così la loro azione nefasta raggiunge la sua massima estensione.
(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. II)
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