
Plotino, a tratti, limita la concezione del male, non lo considera secondo la prospettiva metafisica integrale propria dell’Unità Integrale dell’Essere. Anche Proclo, in diversi casi, limita ulteriormente il senso del male, seppur viene da lui visto nella sua origine metafisica, egli non sviluppa poi adeguatamente e correttamente tutta la dinamica del male in tutte le sue dimensioni. In Proclo domina spesso una prospettiva cosmologica, per non dire psicologica o gnoseologica o addirittura, in molti casi, solamente etica o cultuale. Anche Proclo, come tutti i Maestri della tradizione platonica, afferma che il male sembra tale solo se viene considerato da un punto di vista particolare, ma dal punto di vista assoluto il male non esiste, tutto ciò che procede, in qualche modo, dall’Uno è una graduazione dell’attività del Bene. Dalla visione trascendente e non duale dell’Uno, e quindi ponendosi al di sopra di ogni punto di vista relativo e particolare, ovvero in ciò che trascende tutti i punti di vista e i rapporti relativi a tutti gli esseri, l’apparenza del male viene completamente risolta. Noi diciamo anche che la rigorosa semplificazione del veggente nell’Uno-Uno risolve anche il “problema del Bene”, in quanto l’Uno, inteso come Bene, presenta ancora una qualche possibilità di correlazione ad Esso, ma nella perfetta aplosis ogni possibile correlazione all’Uno viene trascesa e, con essa, anche la riduzione dell’Uno ed essere considerato Bene, in quanto per l’Uno, lo stesso Bene non ha una realtà distinguibile o finale.
Tutte le graduazioni dei mali relativi e particolari possono essere via via trascese risalendo negli ordini superiori dell’esistenza, fino a giungere all’origine del primo male, inerente alla Diade, la quale viene trascesa dalla elevazione al Bene, il quale non ha opposti e non presenta alcuna privazione o alterità. Se ciascuno degli enti finiti partecipa della relatività, e dunque della privazione e della diminuzione del bene, nell’unità integrale del Tutto, e, a fortiori, nell’unità totale dell’Essere, non esiste effettivamente alcunché di male, perché non esistono privazioni, in quanto tutto è perfezionato dall’atto completo di ciò che deve essere compiuto. Per quanto riguarda la graduazione del male, intesa nel suo carattere apparente e relativo, ha la sua origine dalla Diade, il male ha però un carattere paraipostatico che si trasferisce a tutti i gradi dell’esistenza, da cui la relatività della sussistenza degli enti nel non essere, fino a giungere alla materia, nella quale sussiste ciò che Proclo dice essere “il non bene”, ciò che vi è di più negativo e contrario, sempre in modo relativo, rispetto al Bene in Sé. Man mano che si degrada negli stati dell’esistenza, a partire dalla privazione del Bene Assoluto si accresce anche la privazione dei beni relativi, fino al punto in cui si giunge alla spogliazione di ogni bene, tranne quello di essere, di cui ogni ente non può mai venire privato, per lasciare sussistere solamente la presenza dell’alterità più completa possibile, che è propria della materia radicale.
Nelle diverse forme graduali del male si riscontra che ad ognuna di esse corrisponde un bene relativo, perciò ogni ente determinato presenta sempre in sé una data mescolanza del bene e del male, con la possibilità di liberarsi del male relativo per realizzare il suo sommo bene relativo e, se gli è dato, può anche accedere al Bene Assoluto, risolvendo ogni forma di partecipazione al male. Questa concezione della graduazione della malvagità ha a che fare anche con la differenziazione degli stati di bontà degli enti umani in relazione alla loro condotta religiosa, civile o morale, quindi consente di stabilire qual’è la loro partecipazione alle pene o ai premi nella vita e nel postmortem. L’esame della relativa graduazione del male non deve mai portare ad ammettere un massimo male, o un male in sé o un male assoluto, in quanto il male sussiste solo e sempre come qualcosa di relativo, come apparenza, come un accidente totalmente dipendente dal Bene. Quindi deve essere esclusa espressamente qualsiasi possibilità di dualismo o di contrapposizione di un male assoluto al Bene Assoluto, perché “… non ci possono essere due principi: infatti, da dove deriverebbe il loro insieme se non esistesse una monade? Se, infatti, ciascuno dei due è uno, bisogna che l’Uno esista prima di essi, l’Uno per mezzo del quale essi sono tutti e due uno, e che è il loro unico principio”[1].
Risolto questo punto, anche Proclo, come abbiamo visto, ammette la necessità del male, e per esso il male esiste necessariamente, perché il bene non può esistere nella stessa misura in tutti gli esseri, infatti, se esiste ciò che può partecipare del bene, ma ora è privo della coesistenza con esso, certamente ci sarà anche, per necessità, la partecipazione al bene[2]. Dunque, nella misura in cui esistono degli esseri determinati, deve esistere anche la possibilità della partecipazione al male, perché l’esistenza degli esseri distintivi, che presentano solo un bene partecipato, ammette anche, allo stesso tempo, la possibilità di patire il male.
Proclo afferma poi che la materia non è il male in sé, ma anche Plotino afferma la stessa cosa, perciò non lo si può mettere in contrapposizione con lui. Il Maestro della scuola platonica di Roma non ha mai detto che esiste il male assoluto, e quindi, pur individuando nella materia il principio originale del male, non l’ha mai assolutizzato in qualsivoglia modo. Platone stesso non ha mai esposto una dottrina univoca al riguardo della materia, l’ha concepita ora come male originario, ora come bene relativo, perciò la stessa materia può essere intesa secondo due prospettive, le quali non possono essere assolutizzate nessuna delle due. Platone parla positivamente della “materia madre e nutrice” nel Timeo, e negativamente della materia quale substrato disordinato dell’universo, causa di ogni disordine, nel Politico. Proclo parteggia per la prima posizione di Platone, e la sostiene con argomentazioni presenti nel Filebo[3], nel quale il Maestro ateniese fa derivare la materia dall’Uno e tutta la natura dall’Infinito e pone la Causa Divina come anteriore alla separazione del finito dall’Infinito. In questo modo viene fatto presente che nella materia c’è del Divino ed essa va considerata, in qualche modo, partecipante del Bene, perciò non è il male in sé. Ma a questo punto noi ci troviamo, in realtà, al principio della distintività e quindi parliamo di ciò che partecipa massimamente del Bene, però, allo stesso tempo, presenta in sé il principio della determinazione relativa del male, per questa sua natura la materia non è affatto il “male assoluto”, che non può esistere, ma non la si può nemmeno far coincidere con il Bene in Sé.
In ogni caso Proclo insiste col ritenere positiva la materia, per sottrarla alla connotazione di substrato della malignità, egli considera la materia come un elemento necessario all’edificazione del mondo nella sua totalità, essa è stata creata originariamente per fungere da ricettacolo del divenire, per essere la madre degli enti, ma la materia è comunque caratterizzata dall’originaria privazione dell’Essere Intero, perciò essa è veicolo di privazione, in accordo con la sua natura, perciò noi diciamo, diversamente da Proclo, che la materia è ciò in cui si costituisce il male originario. La possibilità di alterazione e di generazione ad extra, rispetto all’Uno, costituisce una diminuzione, un’imperfezione e, come tale, per quanto possa anticipare o precedere tutti gli enti nell’ordine della distinzione, la materia, come tale, è all’origine della distinzione, e dunque, in qualche modo, è la prima sede del male originario. Quando Proclo si rivolge a Plotino per tentare di rettificarlo, rivela che non ne ha compreso pienamente la visione, egli rimane pregiudizialmente stabilito nel suo tentativo di bonificare la materia, e, per quanto ne ammetta la natura di pura privazione, cerca attraverso diversi artifici, talora esclusivamente dialettici, di riabilitarla in qualche modo, sottraendo da essa ogni negatività.
Proclo considera il male come qualcosa che nuoce, che attiene all’attività nociva, ma egli deve però tenere in considerazione che la perfezione metafisica dell’Unità e dell’integralità del Bene richiede che si consideri nociva o negativa, proprio in quanto privativa di un qualche elemento del Bene, la materia, la quale non essendo il Bene in Sé, non presenta la totalità della perfezione e dunque, in qualche modo, ha un carattere nocivo e tramite esso nuoce a ciò che procede da lei. Pertanto non basta qualificare la materia come potenza e causalità efficiente, e dire che il male è causalità deficiente, perché la stessa materia, considerata in principio in rapporto al Bene, è causalità deficiente, e attraverso di essa si costituiscono gli enti che patiscono la “deficienza” dell’Uno, che è propria di tutti gli esseri relativi in gradazioni diverse. Per cui, riprendendo le stesse argomentazioni di Proclo, si può dire che c’è un bene maggiore e un bene minore, e se il bene maggiore “è più perfetto e più vicino alla sua fonte”[4], si può dire che la materia non è perfetta come l’Uno, per quanto sia la più vicina all’Uno in principio, è un “bene minore”, quindi essa è “debole e più imperfetta a causa della deficienza, se si allontana verso il basso dalla sua unità”[5].
Proclo applica queste valutazioni metafisiche della materia anche all’uomo, alla sua anima, alla sua condotta e quindi anche al complesso della giustizia entro il quale l’esistenza umana si muove. L’uomo, in quanto ente determinato, si trova in una dimensione in cui sono compresenti beni relativi e mali relativi, un bene è mescolato al male, che da Proclo è considerato subcontrario[6], e si sdoppia nel male dell’atto e nel male del soggetto, ovvero nel male della colpa e nel male della pena, i quali sono entrambi assenza di misura e determinazione, dunque privazione del bene[7]. Il male del soggetto è peggiore del male dell’atto, perciò colui che viene meno solo nell’atto, ma rimane conforme alla sua natura, è migliore del soggetto che, avendo subito un degrado del suo stato, occupa un rango inferiore a quello che gli spetta secondo natura. Però, per quanto riguarda la sofferenza che produce, il male della pena è maggiore del male della colpa, questo ultimo si trova nell’anima malvagia ed è dovuto alla sua debolezza, alla deficienza dell’intelligenza e della volontà, la debolezza della prima influisce sulla debolezza della seconda. L’anima privata di queste forze si lascia contaminare dal corpo e abbandona alla smisuratezza le potenze appetitive, così si mescola col corpo e sprofonda in esso nella maniera peggiore, annientando in sé la misura, la proporzione e l’ordine.
Nell’anima malvagia prevale l’attività animale contro natura, oppure domina la dimensione immaginale interamente legata al corpo mortale e dunque anch’essa mortale, a causa di queste alterazioni nell’anima è presente il male peggiore, perché essa opera in modo contrario alla sua natura, perciò disprezza il Bene e la presenza dell’Uno in lei. Quando per diverse cause viene meno il bene efficiente nell’anima, essa diviene debole e impotente, per cui non ha la forza di reagire nei confronti dell’ascendente del corpo e della materia. In questo modo viene trascinata verso le regioni inferiori e patisce il male e la pena in questa vita e nell’altra, così come nel ciclo della metempsicosi. Le anime dovrebbero possedere il bene per natura, nel loro principio, nella loro sostanza e nelle loro attività, nella misura in cui ne vengono private patiscono il male, quindi per esse l’assenza del bene, proprio là dove dovrebbe esserci, equivale ad accogliere il male. Quest’accoglienza non è naturale, ma è una possibilità presente nell’esistenza finita e condizionata, nella quale lo stato di perfezione di tutti gli elementi richiede la presenza di diverse condizioni provvidenziali favorevoli, tanto che questo stato è da concepirsi come estremamente raro, fruito dagli uomini divini primordiali può essere fruito nuovamente da tutti coloro i quali riacquisiscono la loro perfezione originaria.
[1] Ibidem, 32.
[2] Ibidem, 7.
[3] Platone, Filebo, 16 d; 25 a-27 b.
[4] Proclo, De Malorvm Svbsistentia, 6.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, 9.
[7] Ibidem, 30.
(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. I)
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