e il suo potere fascinatorio diabolico, per accedere alla verità eterna mediante la scienza sacra

È inutile dare un qualsiasi valore alla “scienza profana”, come fanno anche certi tradizionalisti che tentano, in qualche modo, di attribuire un valore “relativo” alla scienza moderna. È la relatività che infirma completamente la pseudoscienza, specie quando essa dimentica che non possiede la visione assoluta e onnicomprensiva della Realtà. Non si può parlare di “sapere”, se questo sapere limita o elimina a priori la conoscenza dell’essenziale; esso non è un sapere, in quanto il vero sapere possiede la verità. Il falso sapere è analogo a quello posseduto dai prigionieri incatenati nella caverna, descritti da Platone nella Repubblica[1], i quali vedono solamente sul fondo di pietra, verso cui sono rivolti, delle ombre prodotte dalla proiezione di una luce, che si trova alle loro spalle, su degli uomini e degli oggetti, dei quali i prigionieri ignorano completamente l’esistenza. Questi poveri uomini devono essere liberati dalla loro illusione, non vanno apprezzati o avvalorati, gli “scienziati” si trovano nella massima alienazione possibile rispetto alla visione dell’Essere, della Realtà. Essi non dispongono di alcun sapere, perciò non possiedono alcuna episteme o scienza, speculano sulle ombre, sulle apparenze, anche con metodi complessi, ma non sono in grado di ricollegare i fenomeni alla Realtà, perciò sono vittime di una gigantesca illusione e ogni momento che passa sprofondano in essa con sempre più gravità.

Coloro che hanno affermato reiteratamente di volere fare a meno della ricerca delle essenze, dei principi causali del divenire, per non dire poi dei fautori del positivismo, che hanno di fatto negato l’esistenza della realtà metafisica, hanno fatto sì che la nuova scienza profana non fosse una vera conoscenza. Il punto di vista di soggetti limitati alla razionalizzazione della sensazione corporea, è il punto di vista di soggetti illusi, vittime della malia fenomenica. Il fenomeno, in quanto phainomenon, ovvero “ciò che appare”, “apparenza”, è un prodotto del phainesthai, dell’apparire, perciò non ha una sua sostanzialità propria, quindi non è reale. Il fenomeno è l’apparizione di qualcos’altro, che in sé e per sé non può apparire, ne deriva che il fenomeno rimanda sempre e solo al suo referente immanifesto. Che dire di colui che nega il manifestante e prende come reale il manifestato? Che dire dello spettatore che, nella sala cinematografica, scambia la proiezione sullo schermo come qualcosa di reale e dimentica che tutta la vera realtà della proiezione, la sua sostanzialità, sta nel principio proiettore? La proiezione sussiste fintanto che è proiettata, perciò non è mai sufficiente a se stessa, mentre il principio proiettore ha una sua realtà sufficiente, indipendente dalla proiezione, la quale può esserci o meno, senza che esso venga infirmato o modificato.

La pseudoscienza moderna è il frutto dell’inversione diabolica dell’ordine della proiezione-manifestazione, la manifestazione è ritenuta la sola realtà, mentre il principio manifestante non solo viene subordinato alla manifestazione, cioè alla necessità di manifestarsi, ma, nella fase più estrema della alienazione pseudoscientifica, viene completamente negato. Con la critica prima e poi con l’avversione e infine con la negazione della scienza sacra, della scienza metafisica, dell’immanifesto, del Reale, la pseudoscienza moderna ha stabilito che il prodotto, la proiezione, è indipendente dal produttore, dal principio proiettore. Non solo, la proiezione, intesa nella sua sola materialità, deve essere considerata come l’unica realtà. In questo modo la soggezione alla malia-illusione del divenire-non essere è stata ipostatizzata, poi, negli ultimi due secoli, l’illusione è stata imposta con rivoluzioni e nuovi sistemi di istruzione pervertiti, facendo ultimamente impiego di mezzi di persuasione collettiva sempre più potenti, in modo che tutti gli uomini siano soggetti a questa operazione radicalmente diabolica. Ma i diversi gruppi scientifici, dispiegati nel dominio dell’illusione, si trovano ripetutamente in contrasto fra di loro, dibattono di continuo, discutono, perché ciascuno di essi reputa che il suo punto di vista sia quello più corretto, ma nessuno si rende conto che tutti loro sono rinchiusi in una prospettiva relativa ed illusoria. Mancando dell’oggettiva stabilità della conoscenza metafisica, fondata sui principi universali di carattere sovraindividuale, essi non possono concordare le differenze e i conflitti che sorgono senza sosta dalle prospettive individuali relative, specialmente nell’ambito della conoscenza sensibile.

È improprio parlare di principi nel dominio della scienza profana, in quanto ciò su cui essa fonda non sono veramente principi, cause prime, ma neanche seconde. Le “verità scientifiche” sono per lo più conclusioni di carattere generale, derivate da operazioni induttive, le quali presentano un carattere ipotetico, perciò sono soggette alla possibile correzione. Questo carattere di aleatorietà della “verità scientifica” non viene reso noto alla maggioranza degli uomini, a questi temi si applicano solo gli epistemologi della scienza moderna. I più famosi fra di essi dicono che la scienza profana, per sua definizione, non può affermare alcuna verità, perché non può affermare nulla con certezza, la sua ricerca è in costante mutamento, perciò anche la “verità provvisoria” a cui la ricerca stessa giunge. Ciò che oggi appare vero ad un dato gruppo di studiosi, domani può risultare falso ad un nuovo gruppo di studiosi, e così via, senza sosta.

Sulla base della “dottrina della falsificabilità” di Popper, ogni ipotesi scientifica, e non ogni teoria come si dice comunemente, per essere vera deve anche essere “falsificabile”, ossia da essa devono essere estraibili le conseguenze che possono venire confutate, cioè falsificate dai fatti, altrimenti l’ipotesi scientifica non deve essere considerata vera. Perciò la scienza profana non è una cognitio certa per causas, ad essa si addice la confutabilità, l’incertezza permanente, cioè la mancanza della verità alla sua radice, quindi essa procede per cognitio incerta per fallibilitatem, a differenza della scienza sacra tradizionale, una scienza alla quale si giunge mediante un metodo scientifico di carattere metafisico ed intellettuale. Oggi viene considerato “scientifico” ciò che è fallibile, confutabile, ciò che non è certo, di fatto ciò che per definizione è erroneo, poiché dal momento in cui questa scienza viene confutata viene dimostrata la sua falsità. Se la scienza deve procedere alla ricerca della verità attraverso una “sperimentazione sufficiente”, come dice Popper, i casi numerati e prodotti non saranno mai sufficienti, perché non potranno mai essere conosciuti tutti, quindi anche la sola mancanza della conoscenza di un caso, che potrebbe annullare l’apparente validità di tutti i casi precedentemente raccolti, toglie solidità scientifica, certezza, a quello che lo sperimentatore ha ricavato fino ad un certo punto. Inoltre, la ricerca della verità per eliminazione, che si fonda sulla confutazione, sull’eliminazione delle “teorie false”, per arrivare infine a quella “vera”, è da Popper criticata, in quanto il numero delle teorie false o rivali rispetto a un’altra è di fatto indefinito, perciò è impossibile numerarle tutte. Quindi, quel tipo di induzione scientifica che procede secondo questa modalità, non ha alcun fondamento e non può ottenere alcun risultato certo, ma solo probabile, un risultato soggetto comunque, in ogni momento, ad essere falsificato, come mostra la breve storia della scienza moderna. Per questa via è facile finire in una posizione agnostica, per la quale si afferma che non è possibile giungere alla conoscenza della verità.

Negli ultimi due secoli lo sviluppo delle critiche alla pretesa di raggiungimento della verità attraverso l’attività razionale e il metodo scientifico sperimentale, ha messo in luce che l’uomo, insistendo in questa deviazione, non potrà mai sapere se le ipotesi che formula sono vere, perché le conseguenze delle sue ipotesi sono indefinite ed egli non può controllarle tutte, così come non può confutare tutte le possibili ipotesi contrarie. Non è perciò possibile svolgere una sperimentazione sufficiente, per cui ogni risultato conseguito rimane, nella migliore delle ipotesi, sempre nel campo del probabile, ma un probabile di ordine esteriore, contingente e materiale, che non ha alcuna relazione con la verità essenziale. È probabile che gli eventi esteriori si svolgano sempre in un certo modo, ma questo non spiega nulla sulla natura degli eventi, inoltre rimane sempre presente un’indeterminazione, un’incertezza nell’afferrare la verità dello sviluppo esteriore e contingente delle cose. Ora, tutto ciò che ha costituito il mondo moderno è in fase di dissoluzione e di “superamento”, l’orizzonte della modernità, che si è costituito mediante le nuove filosofie e le nuove scienze, fra il XVII e il XIX secolo, ha perduto la sua validità, le certezze positive, lo stesso materialismo, i fondamenti cartesiani sono ormai stati superati verso il basso dai nuovi orizzonti delle pseudoconoscenze, ancora più alienate delle “conoscenze” che si sono affermate nella modernità.

Popper ha detto che la metafisica dell’Essere, sostanzialmente la scienza metafisica tradizionale, ha ostacolato il cammino della scienza fisica moderna, ma anche delle scienze naturali e delle scienze umane relative. Non a caso Popper se la prende con Platone, criticandolo radicalmente, perché individua in esso il rappresentante più pericoloso del “pensiero forte” o del “dogmatismo” metafisico, egli non sopporta Platone perché è tutto inclinato ad uno scetticismo radicale e al relativo agnosticismo. Per Popper tutta la scienza metafisica è falsa, perciò il platonismo è falso, così come l’aristotelismo e tutto ciò che compone la tradizione filosofica metafisica. Egli compie un grossolano errore, perché reputa che tutto il processo della conoscenza metafisica si svolga all’interno dell’uomo, dell’individuo umano, delle facoltà umane. Giustamente Popper dice che tutta la conoscenza prodotta da limitate facoltà umane è ingannevole, perché, per loro natura, le facoltà umane non possono giungere ad una conoscenza certa, quindi si ingannano inevitabilmente. Questa posizione porta all’agnosticismo scettico, quindi anche alla critica della ragione che si rivolge a se stessa, la quale progressivamente si autoannienta, avendo eliminato per principio il suo fondamento ontologico, l’Essere, disperdendosi nell’incertezza assoluta e nel nichilismo relativo.

 

[1]                 Platone, Repubblica, VII, 514a-515 c.

[tratto da: Viola, L.M.A., Sulla Via della Salute]

  

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