Secondo Proclo, la Provvidenza Divina Integrale va fatta risalire all’Uno-Bene stesso, il quale perciò provvede al Tutto nella sua completezza, anche agli ordini degli Dei[1]. La Provvidenza Suprema è perciò congenere all’Uno e ha una potenza infinita[2], conosce a priori tutto l’ordine divino in se stesso, ma anche il dominio contingente, temporale e determinato, in modo eterno e indeterminato, perché l’Uno, in sé, non ammette categorie determinate, che sono valide solo per l’intelletto determinato[3]. La Provvidenza Suprema ha il compito di comunicare a tutti gli esseri il Bene, per­ciò li conserva e li conduce con la sua attività al Bene-Uno, secondo il modo e la natura di ciascuno di essi[4]. L’anima dell’uomo può accedere alla disposizione della Provvidenza tramite la conoscenza e perciò può elevarsi fino all’Uno-Bene compiu­tamente, realizzando l’attualità integrale della sua natura.

Ogni cosa va compresa come coordinata all’Uno e avente come fine l’Uno e per­ciò l’atto perfetto della sua natura, ciò vale per tutti gli ordini dell’universo, quindi anche per il mondo. Il mondo è costituito come misto, se esso non sussistesse l’at­tività provvidenziale sarebbe incompleta, ma in esso i diversi generi derivati partecipano dell’Uno, secondo una graduazione discendente, perciò, più gli enti mondani sono distanti dall’Uno, più partecipano dell’alterità e della contrarietà e dunque del male. Il male per Proclo non ha un fondamento divino, né possiede una sostanzialità permanente ed eterna, ma è ciò che inerisce alla costituzione dell’alterità e dunque alla contrarietà. Ma anche il dominio dell’alterità è voluto dalla Provvidenza, con tutte le sue limitazioni, perciò il male è necessario alla costituzione degli enti nella distinzione, alla quale si associa la pena della privazione dell’Uno. Gli enti che partecipano di più della materia e dell’alterità, partecipano meno della ragione e dell’unità, tutto ciò è secondo natura e giustizia, ma ad essi inerisce un tipo di vita relativamente penoso. Il Bene impera sempre su tutto e dunque il male, essen­zialmente, non esiste per l’Uno[5]. Ciò che è necessario ad un certo dominio, perché possa sussistere, rientra anch’esso nel disegno assoluto della Provvidenza Suprema, perciò secondo l’Uno è un bene relativo. Dunque, a livello dell’Uno il male non ha alcuna sussistenza, hyparxis, né sostanza, hypostasis, esso compare come accidente illusorio con la costituzione dell’alterità e degli esseri misti, ma non ha una vera realtà nell’Essere, perciò è parhypostasis, ovvero è pseudosostanziale.

La natura del male è mancanza e privazione, questi elementi non sussistono nell’Uni­tà Divina Suprema, ma, come abbiamo visto, procedono dalla Diade metafisica, nella quale sussiste il principio di ogni alterità e dunque di ogni male. A far principio dalla Diade si pro­duce la comunicazione dell’Unità all’alterità, un’alterità necessaria, per cui anche il degrado e la privazione fanno parte di un disegno provvidenziale che è compreso nel Bene Supremo, un disegno che prevede l’attuazione della Possibilità Totale in tutti i suoi modi. È perciò prevedibile la costituzione di un dominio in cui, sussisten­do la determinazione, non sia presente la pura attualità dell’Essere indeterminato, ad ogni determinazione deve perciò essere associata una relativa privazione, col grado di pena che questa privazione reca con sé. Ma, secondo la visione divina non duale, non vi è qualche luogo del Tutto in cui sussista realmente il male, quindi non esiste un male assoluto, perché ogni relatività è compresa nell’unità della Provvidenza Suprema ed è regolata dalla sua Perfetta Giustizia. La stessa anima determinata dell’uomo è collocata in un determinato luogo del Tutto, perché la perfezione del Tutto sia attuata attraverso quella precisa costituzione.

Ne deriva che nessuno degli enti preposti all’attuazione provvidenziale della Giustizia Divina Integrale è assolutamente malvagio, nemmeno l’ultimo e più basso dei demo­ni operanti in apparente contrasto a Dio, come Flegias, perché anch’esso svolge, secondo un ordine necessario, la funzione di riconnettere l’azione dell’ente a cui è preposto all’Uno, secondo uno specifico modo, che può apparire negativo, contrario o penoso, ma non di meno giusto. Il male che interessa le singole azioni dell’uomo particolare interessa solo l’uomo, nessun Dio compie atti contrari alla natura e al bene dell’uomo, né veramente nessun demone. L’anima può essere soggetta alla malia o meno, questa soggezione ha una radice trascendente connessa alla catabasi, la quale, per Proclo fa discendere tutta l’anima nel corpo, perciò stabilisce la sospensione completa della contemplazione metafisica e la soggezione dell’anima al lethe-oblio.

La mancanza dell’attività contemplativa trascendente è una pena e induce la sog­gezione dell’anima all’attività irrazionale, al sensibile, con la conseguente sottomis­sione al disordine della corporeità materiale. La forma di vita materiale a cui l’anima partecipa è contraria alla sua natura essenziale, ma, dal punto di vista supremo, non è un male assoluto, perché il male assoluto non esiste. Comunque una vita povera, mi­sera, penosa, relata alle passioni e ai piaceri, costituisce il massimo di sofferenza e il minimo di bene per l’anima. La ricerca indeterminata del piacere cinetico vincola l’anima alla più brutale necessità, la lega alla corruzione della corporeità e nega la sua natura divina sovrana, ma, nonostante ciò, l’anima rimane anima, pur patendo la corruzione del corpo e il dolore. La condizione di pena dell’anima e la sua afflizio­ne entrano, comunque, nel contesto universale della Giustizia Divina e del relativo fondamento provvidenziale su cui fonda, dal quale niente può mai esulare. L’anima cieca e perduta è in balia di passioni e demoni, questi ultimi spingono sempre l’a­nima verso una direzione per lei corretta, nonostante le apparenze[6], le sue scelte irrazionali la portano verso ciò che è soggetto a gravi pene, perciò l’anima patisce punizioni da parte della Giustizia Divina, ma ciò per essa è un bene, perché riceve in proporzione alla sua malignità e quindi secondo giustizia. Dunque il male è sempre relativo al bene e non è mai contrapposto realmente ad esso, perché il bene lo tra­scende sempre, come l’Assoluto trascende il relativo e l’Infinito trascende il finito.

Il male è solo privazione relativa di bene, perché non è possibile annullare la presenza dell’Uno-Bene in tutti gli stati dell’essere, per via di una necessità assoluta. Il male assume la connotazione di “contrario del bene” solo in apparenza, nella dimensione dell’alterità, perché partecipa della potenza che deriva dal Bene, perciò è implicato da essa, quindi è subordinato al Bene e solo subcontra­rio ad esso. L’Uno, in quanto assolutamente sovrabbondante, permette ciò che è privazione dell’assolutezza, con tutto ciò che questa privazione implica, perciò, in realtà, per l’Uno il male non è che necessaria statuizione di ciò che attua la relatività della privazione, quindi risulta costituito nella Possibilità Totale del Bene.

In definitiva il male non è mai assoluto, né è privo di relatività in se stesso, ciò che è male per un dato ente può essere bene per un altro, ma, soprattutto, è male per la relatività che vi è associata, ed è bene per l’Assoluto che lo trascende. Essendo privazione di potenza e difetto di essere, il male non può che costituirsi accidentalmente rispetto ad essi, che in sé rimangono immodificati, perciò il Bene è sempre pienezza inalterabile di essere e potenza. Per gli enti relativi il procedere secondo l’essere e la pienezza è bene, mentre il procedere secondo il non essere e la privazione è male, sebbene questi modi siano impliciti nella Possibilità Totale del Bene. All’anima dell’uomo spetta di elevarsi alla prospettiva della Provvidenza Divina Suprema, che è propria del Dio Supremo, a partire dalla conversione dal non essere all’essere, fino a quando non sarà giunta a possedere la stessa perfetta visione della Realtà propria dell’Uno.

 

[1]  Proclo, De Dec. Dvb., I, IV.

[2]  Ibidem, III, 12.

[3]  Ibidem, II, 7-8.

[4]  Ibidem, IV, 20-23.

[5]  Proclo, De Mal. Sub., 2-3.

[6]  Ibidem, 59.

 

 

 

(tratto da L.M.A. Viola, Psyches Therapeia, vol. I)

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